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Poveri noi se sono loro a perdonare noi

Sarantis Thanopulos

 

Il suicidio dei due coniugi di Civitanova Marche a cui ha fatto seguito il suicidio del fratello di lei è un atto civile: una lezione di etica senza retorica e senza intenzioni didattiche che priva com’è delle sue parole sarebbe opportuno che non la si lasciasse cadere. E’ possibile che sparisca in pochi giorni: statisticamente è questo il suo destino più probabile. Se, invece, restasse dentro di noi come nodo doloroso, come ferita che fa male, ci obbligherebbe a restare vivi, a cercare di mettere un argine al suicidio selettivo delle proprie emozioni che ognuno di noi effettua quotidianamente partecipando inconsapevolmente a un rito di massa sempre più esteso. Si può vivere da morti o morire da vivi. Non è una grande scelta a dire il vero ma la morte dei nostri tre sconosciuti vicini ci ricorda che nessuno di noi ne é pienamente fuori. Più l’anestesia (nella sua versione calmante o in quella eccitante) espropria i nostri sentimenti più i nostri pensieri e i nostri discorsi sono vuoti, un’emorragia silenziosa del desiderio. Come in ogni cosa che ci colpisce in pieno (se siamo abbastanza presenti in noi per accorgersene) è il dettaglio che stona (periferico al fatto inesorabile) che ci consente di rientrare in gioco e di non essere spazzati via (nell’illusione, così umana per altro, di dover staccare la spina per riprendersi). I due coniugi hanno lasciato una lettera in cui chiedono perdono. È una lettera di mittenti senza un indirizzo, perché qualcuno possa inviare una risposta, e senza un destinatario. Una lettera come quelle che si trovano per strada o come quelle che arrivavano, in tempi passati, in spiaggia dentro bottiglie trasportate dall’oceano. Non è spedita da naufraghi ma è rivolta a dei naufraghi, a noi che siamo sopravvissuti naufragando. Non possiamo sapere il significato che i mittenti hanno dato al perdono (quello che ci chiedono, quello che ci danno): l’hanno portato via con sé. Ci hanno lasciato soli a decidere. Lo possiamo fare solo guardandoci attorno (guardarci dentro è spesso la prima  scappatoia disponibile). Guardando il vuoto che i nostri occhi non sono abituati a vedere, guardando i nostri gesti distratti e ripetitivi, la ritualità che prende il posto della nostra passione (erotica, sociale, civile), l’esaltazione di tutti i luoghi comuni che esilia ogni tipo di pensiero difficile, potremmo forse arrivare a capire che cosa ci dicono (utilizzando il loro sacrificio ai fini di una nostra riparazione, com’è giusto che sia): ci chiedono perdono per averci lasciato al nostro destino di morti viventi se neppure la loro morte ci portasse al risveglio. Tuttavia se riusciamo a svegliarci, a tornare vivi, ci perdonano per averli lasciati partire  per aver reso la loro rinuncia inevitabile. Non sono parte del nuovo che avanza né l’araba fenice che rinasce dalle sue ceneri: sono una parte di noi dimenticata che non vuol vivere come menomata né ricevere elemosina.