IL GIOVEDI’ del LABORATORIO
Lisciotto D., Bucolo G., Siragusa M., Genovesi B., Faranda M., Cardia R., Vezzosi A.
(Gli Autori sono psicoterapeutici e soci del Laboratorio Psicoanalitico “Vicolo Cicala” di Messina)
“Scompare a poco a poco, amore, il sole
ora che sopraggiunge lunga sera.
Con uguale lentezza dello strazio Farsi lontana vidi la tua luce
Per un non breve nostro separarci.”
G. Ungaretti
Al Laboratorio, un giovedì di ottobre del 2003 ci ritroviamo per studiare assieme Freud. C’è un’atmosfera di fiduciosa aspettativa, di curiosità reciproca, c’è anche il bisogno di sperimentare un modo nuovo di stare insieme.
E’ un inizio.
Ci raggruppiamo nella stanza più piccola del laboratorio e, nei due anni di lavoro, cambiamo stanza tre volte, occupandone una sempre più grande. La scelta sembra casuale, dettata dal riunirci laddove qualcuno di noi già stava studiando nell’attesa che arrivassero gli altri. Nel tempo abbiamo intuito che, in questo modo, stavamo realizzando inconsapevolmente l’intenzione o il bisogno che il nostro pensiero di gruppo “abitasse” ogni spazio del laboratorio che, così, poteva animarsi riempiendosi di contenuti: il movimento del pensiero prendeva forma snodandosi attraverso le diverse stanze e conferendo altrettanta forma ad esse che diventavano accoglitori di significati e rimandavano, pertanto, significatività al gruppo stesso. Il clima facilitava l’accoglimento delle fantasie, dei ricordi, delle associazioni, dei riferimenti, a volte personali, più spesso clinici.
In questo clima, abbiamo cominciato a rileggere Freud prestando particolare attenzione al suo linguaggio.
Freud “parla” col lettore, non scrive soltanto; ci suggerisce che l’interagire comporta il mobilitarsi internamente, a livelli più profondi, il produrre in modo inconsapevole il movimento dell’inconscio. Questo movimento realizza pensieri che “pulsano” e che rendono il rapporto tra persone uno scambio di qualcosa di invisibile e tangibile al tempo stesso.
Le letture freudiane, sia per i contenuti che per lo stile con cui scrive Freud, la scelta delle parole, l’uso della punteggiatura, il ricorso ad una certa ironia, hanno l’effetto di risvegliare corde di comprensione e di attenzione più profonde. Abbiamo pertanto la sensazione che avvenga una sorta di connessione tra profondità o meglio tra l’inconscio di chi legge e quello di chi scrive.
Realizzando l’analisi del testo abbiamo potuto apprezzare la semplicità e l’efficacia delle parole di Freud che svelano l’autentico senso della “cura psicoanalitica” che si centra sulla capacità di stabilire un contatto profondo col paziente.
Abbiamo iniziato con “Psicopatologia della vita quotidiana” ma ci siamo divertiti anche a cercare capitoli “minori”, anche brevi, come: “Trattamento psichico, trattamento dell’anima”, “Il poeta e la fantasia”, “Consigli al medico sul trattamento psicoanalitico”, “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci”, ritrovando un Freud che scrive “a partire dall’anima” e questo ci raccomanda.
Questo ci è sembrato il primo apprendimento: leggere col sentimento, sviluppare la capacità di sentire oltre che di capire razionalmente ed è questo che attiene all’analista.
La sensazione che se ne trae è che Freud ci inviti ad una comprensione sentimentale oltre che razionale. Scopriamo così un Freud comunicatore di emozioni, che indica “l’anima”, e non soltanto la mente, come principale organo ricevente dell’analista e che suggerisce un modo di lavorare.
L’ascolto dei “moti dell’anima” ci rimanda al concetto di attenzione fluttuante poiché produce un pensiero nell’analista, “un’idea improvvisa” sul paziente.
A volte è difficile restituire al paziente i moti dell’anima vissuti dall’analista trasformati in parole. Quello che le parole non riescono a comunicare è l’ampiezza del sentimento che, invece, può essere meglio trasmessa con altri tipi di linguaggio: lo sguardo, il silenzio, il gesto, la metafora.
Queste considerazioni conducono il gruppo a pensare all’arte come strumento di comprensione. E così si realizza, senza averlo programmato, un allargamento del pensiero che adesso si sofferma sull’arte e le sue forme come strumenti d’espressione di contenuti dell’inconscio il cui spessore sarebbe altrimenti indescrivibile.
La prima associazione è con la poesia.
Viene ricordato Heidegger (1954) quando dice: “Il pensiero volto all’indietro è volto verso ciò che va pensato ed è il terreno da cui sgorga la poesia. La poesia è quindi il corso delle acque che scorre all’indietro, verso la sorgente, verso il pensiero che si volge all’indietro. Tutto ciò che diventa poesia prende origine dal pensato del pensiero che si volge all’indietro.”In questo contesto diventa più comprensibile il concetto che il trattamento psicoanalitico si avvale della componente creativa dell’analista e del paziente.
Ripensiamo al lavoro di Freud (1907) “Il poeta e la fantasia” quando scrive: “Ogni bambino impegnato nel gioco si comporta come un poeta; in quanto dà a suo piacere un assetto alle cose del suo mondo.”
Anche noi terapeuti siamo impegnati a dare “un nuovo assetto alle cose del mondo” al nostro mondo interno e a quello della persona che curiamo.
Nel fare questo dobbiamo essere in grado di ascoltare il nostro inconscio, addentrarci in quello dell’altro e farlo come lo farebbe un poeta, “a partire dall’anima”.
L’associazione è con la favola “Il piccolo principe” che ci sembra, in alcuni passi, rappresentare l’incontro terapeutico:
“Se vuoi un amico, addomesticami!
Che bisogna fare?” – domandò il piccolo principe –
Bisogna essere molto pazienti” – rispose la volpe –
In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino (…) Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare delle ore aumenterà la mia felicità: quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore.”
(De Saint. Exupéry, 1949)
“Addomesticare” fa pensare “all’educabilità” di cui parla Freud (1910) riferendosi all’aspetto terapeutico del metodo psicoanalitico.
Le associazioni si sviluppano nel gruppo portandoci dalla poesia di Edgar Lee Masters a Marguerite Yourcenar, dalla pittura di Munch all’opera di Gibran “Il Profeta”, alla canzone “La cura” di Battiato.
E, ancora una volta, senza prevederlo, succede che il pensiero del gruppo si va sviluppando in un movimento associativo attraverso il quale, come in una matrioska, si raggiunge un tema comune rintracciato nelle diverse espressioni artistiche evocate nel gruppo: il tema della separazione e del dolore.
GEORGE GRAY: LA NON SEPARAZIONE
Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio –
una barca che anela al mare eppure lo teme.
Questa poesia fa parte della celebre raccolta epigrafica “Antologia di Spoon River” del poeta americano Edgar Lee Masters, in cui gli abitanti di un immaginario villaggio riflettono dalla propria lapide sulla vita, sulla natura umana e sulle relazioni intime in cui sono stati immersi sino alla fine. Da questa singolare prospettiva le cose del mondo appaiono finalmente rappresentabili ed anche le verità più dolorose possono essere confidate a se stessi ed affidate alla pietas di coloro che rimangono e possono ricordare. E appunto il dire del ricordo offre “affettuosamente e con fragile approssimazione” una rappresentazione di quel “continente immaginario che senza il velo delle parole è il nulla, l’inesistente, la caduta per eccellenza“ (Papetti 1997).
George Gray è, forse non a caso, uno dei pochi personaggi della cui vita nulla conosciamo e il suo epitaffio può certamente suggerirci il titolo di “incompiuto”. Un uomo racconta della propria vita mai realmente vissuta, perché paure troppo grandi gli hanno impedito di crescere, di “lasciare il porto“. Se “nel mondo degli uomini l’esperienza della separazione costituisce l’esperienza stessa del vivere”, la metafora delle “vele ammainate” rappresenta un aspetto particolare del tema della separazione che riguarda coloro che si fermano nel limbo della non-separazione, in cui nulla può davvero accadere e l’identità è rimasta incompiuta e intrappolata in un’attesa senza fine (Carotenuto 1996).
Per Freud lo sviluppo psichico comporta l’acquisizione del principio di realtà che passa attraverso l’esperienza della frustrazione, della perdita. Anzi, come afferma Lou Andreas-Salomè (cit. in Carotenuto 1996), “la nostra prima esperienza è una perdita”; la nascita, una separazione. L’individuazione non può quindi avvenire senza l’esperienza della separazione che tracci confini fra il sé e il non sé, il soggetto e l’oggetto. Il processo di soggettivazione comporta inevitabilmente un distacco, un movimento, il “prendere i venti del destino” e permettergli di sballottare, di bagnare, di ferire l’individuo.
Tuttavia, ci sono persone che sembrano odiare la crescita e la maturazione, che appaiono immobili, come congelate in uno stato di eterna attesa, senza desideri, né sofferenza. Persone che non si lasciano toccare dai sentimenti, dagli affetti, che non intrecciano legami per paura di restare orfani. Sembrano aspettare l’occasione o la persona “giusta”. Il loro Godot che non arriva mai. Come George Gray, sono pervasi “dall‘inquietudine e dal vano desiderio”, eppure si ritirano senza partecipare mentre il tempo passa loro accanto. Lo stato di attesa, come ricorda Siracusano (1998), può infatti essere “al di la del principio di realtà ed al qua del principio di piacere“ e permette di vivere senza rischiare, senza contraddizioni o delusioni. Senza affrontare mai il dolore del lutto. Senza mai nascere davvero.
In un’altra epigrafe dell’Antologia, Lee Masters (1915) ci ricorda che la “nascita dell’anima è nel dolore, una nascita fatta di guadagni e perdite”. L’eccessiva paura dell’ignoto impedisce a George Gray di saggiare i propri limiti, di conoscere il mondo ed anche se stesso, quindi di essere compiutamente umano. Come nel romanzo di Buzzati (1940), “Il deserto dei tartari”, in cui il protagonista Giovanni Drogo aspetta in una fortezza sperduta in mezzo al deserto, l’arrivo di un nemico che dia finalmente significato alla sua esistenza. Peccato che al palesarsi di un esercito in armi egli sia ormai troppo vecchio per combattere e sarà mandato nella retroguardia, in cui morirà di morte naturale. Nascondersi nella fortezza minacciata solo nell’immaginario dalle orde dei Tartari permette al protagonista di evitare sconfitte e sofferenze reali da cui egli rifugge, preferendo condurre una vita fittizia in un mondo parallelo alimentato dall’illusione.
“Una barca che anela al mare eppure lo teme” disegna la rappresentazione icastica e tragica della morte dell’anima.
PARAFRASANDO LE PAROLE DI MARGUERITE YOURCENAR
Leggo le parole di Marguerite Yourcenar (1929) “La tua assenza dilaga il tuo volto nell’esistenza”: penso all’assenza come momento di frattura, come momento di fine ma anche d’inizio, momento in cui si va alla scoperta di sensazioni ed emozioni che non si conoscono. Ed è allora che chiudendo gli occhi, si torna indietro, si torna al ricordo dei tratti somatici, della voce, dei suoni e degli odori…allora sembra che non ci sia più un tempo nel momento in cui si realizza una separazione, tutto è più vasto, non esiste un limite, tutto si è fermato, tutto è dilatato.
Il ricordo, momento, spazio di fuga e di ristoro, etimologicamente deriva dal suffisso rafforzativo “ri” e dal sostantivo “cor-cordis” cuore, in quanto si riteneva che la sede ove venivano custoditi i ricordi fosse proprio il cuore, la parte per il tutto. A questo si contrappone il termine “dimenticare” composto dal prefisso “de” privativo e da “men-mentis” mente, memoria e, propriamente, “uscir dalla mente, uscir dalla memoria”. Esiste una sottile differenza tra “dimenticare e scordare”: “scordare è più che dimenticare, perché ciò che si ha veramente in cuore non si dimentica”
Ed è il ricordo che travolge, affinché si possa conservare la sensazione d’esser vivi, nel desiderio di custodire tutto di sé e dell’altro, cosi da ritenere che anche l’altro sia ancora vivo… Ed allora si sta lì a farsi dondolare come quando ci si adagia su un’amaca e la trama è come se fosse composta dall’intrecciarsi delle nostre mani, delle nostre dita e di colui che vorremmo sentire ancora lì… ed allora ci si chiude come in un dolce abbraccio, si chiudono gli occhi e si rimane lì con l’orecchio teso ad ascoltare lo sciabordio delle onde che si esauriscono sulla battigia per poi riprendere il loro corso… il loro andare e venire… il loro vero divenire.
Ed ancora rimanendo lì ad osservare la battigia, si ritroveranno tutte le cose che il mare ha trasportato dal suo profondo… le cose belle, le cose preziose, ma anche quelle brutte, quelle da noi ritenute brutte, sconvolgenti e distruttive… ed è allora che penso al movimento dell’anima e a tutto ciò che con il suo andare e venire lascia sulla riva della memoria, dando sempre più vita ai ricordi quelli dai quali ci facciamo consolare e quelli dai quali scappiamo, ma dei quali conosciamo l’esistenza…
Penso al lavoro analitico che accompagna questo movimento, che è esso stesso movimento ed è forse anche questo una culla che offre l’opportunità di rinascere, di crescere, di non essere puri spettatori di un divenire, ma abili attori.
Il dolore, l’abbandono, la sofferenza..
Esiste, può albergare in noi come quel profondo stato di malessere che accompagna e non permette di vivere più nulla, dal quale ci si sente rapiti.
E’ una condizione privata e privativa: privata perché profondamente personale e privativa perché non ti permette di godere di altro, ti priva di ciò che è intorno; è una condizione dalla quale hai la sensazione di non riuscire a liberarti.
Ma al tempo stesso scalpita il desiderio di scappare, di liberarsi da ciò che si pensa stia provocando questo profondo dolore ed è allora che si avverte la crescita, la maturazione.
Da cosa nasce questo bisogno?
Forse dal desiderio di poter capire che nulla è cambiato, che chi non c’è più esiste ancora perché esistiamo noi, perché nulla che ci appartiene si perde, tutto diventa un mezzo per poter ancora costruire partendo così da ciò che è rimasto in noi.
Ti chiedi e richiedi quando finirà se ci sarà un momento in cui riuscirai a provare altro, qualcosa di bello, ma ci si sente mozzati, amputati senza quella che è la spinta vitale, e ci si prefigge sempre cose diverse nell’attesa di poter provare nuove e forti emozioni, ma invece continui a convivere con l’assenza, con il vuoto…
Ma lo stesso sciabordio delle onde, lo stesso sole che inesorabilmente continua a splendere ogni giorno ed in fondo lo fa anche per te, ed il vento che può trasformarsi in messaggero, ti riportano ad una realtà, ricordandoti che devi continuare ad esistere per poter far esistere l’altro…altrimenti sarà stato tutto vano.
SEPARAZIONE
“L’hai davvero scordato
che il tuo braccio al mio braccio si intrecciava
e che il tuo crine biondo per tutta una fugace primavera
fu il mantello beato del mio amore?
L’hai davvero scordato
che musica e profumo era quel mondo che ora se ne sta lì,
grigio ed annoiato,
da tempeste d’amore, dalle nostre follie non più cullato?”
I versi nostalgici di Hesse (1985) diventano i pensieri del “separato” di Munch.
Egli sta lì, dimesso ed annegato dal vuoto dello spazio prima abitato dal suo oggetto d’amore. Pietrificato dalla separazione e dalla perdita, appare prigioniero del lutto.
Vive un tempo senza divenire, una temporalità fissata nell’attimo ricorrente del trauma: l’amata, sirena ed allo stesso tempo carnefice, che un tempo lo aveva inebriato di musica e profumo, lo abbandona. Lui appare vittima della paralisi del tempo del trauma, un tempo ed un trauma che possono imprigionare la mente nella loro morsa di morte. E’ ritorto su se stesso, immobile nella sua fissità. E’ incastonato in uno spazio senza luce, occupato e quasi claustrale: il tronco del pianto ed il fiore del dolore fanno da cornice entro la cornice alla sua sofferenza ed infelicità.
Tutto nel suo aspetto esprime dolore, dal volto cupo, alle labbra aperte in un respiro affannoso, alla mano che pare insanguinata da quel cuore in agonia. Gli abiti che indossa sono neri ovvero di quel colore che è la negazione stessa del colore e che si estende fino ad imbrunire l’incarnato del viso, cinereo. Gli occhi sono chiusi, forse nel tentativo di controllare l’inquietudine dovuta al caos del capire, non capire, non poter o non voler capire. Ed il caos spaventa perché è l’informe, l’indefinito, l’irrappresentabile.
Egli ineludibilmente deve confrontarsi con le rappresentazioni dell’irrappresentabile, del dolore e delle sue parti psicotiche.
Dovrà introiettare ed integrare gli oggetti vitali nel proprio mondo interno. Recuperarli. Il recupero gli permetterà di riappropriarsi del proprio mondo emozionale in un travaglio che segue un continuo movimento oscillatorio tra legami, aperture, passioni e liberazioni, paure e forze. Un travaglio attraverso cui e per cui “l’oggetto perduto” sarà “l’oggetto recuperato”, non verrà eliminato e perso per sempre, lontano da sé o fuori da sé, ma vivrà per sempre dentro il sè, con il sè, rimodellando l’identità stessa (Jervis 1984).
L’amata può essere ritrovata viva dentro di lui, nella misura in cui la mente può riappropriarsi di tutta l’emozionalità che aveva compresso dentro la rappresentazione di lei nell’estremo sforzo di esorcizzare la perdita. Potrà, così, accostarsi ad una visione più libera della vita intorno a lui, potrà acquisire una visione dello spazio non più dominato da elementi persecutori e mortiferi ma in cui i diversi elementi si integrano e si modificano assumendo qualità trasformanti e trasformative.
Quello stesso “crine biondo” dell’amata che nell’andare si prolunga fino a ricadere sul petto può essere sì il cappio del dolore di lui ma può anche essere introiettato ed assimilato al “beato mantello” del loro amore che dà calore alla realtà interna modulando il tono affettivo della memoria ma senza adulterarne il significato.
Il crine biondo è l’elemento che, nella separazione, congiunge “colei che va” e “colei che resta” in uno spazio interno sostenuto ed arricchito da un buon oggetto che permette di tollerare l’assenza e di ritornare a pensare e a vivere con un nuovo vigore, che consente la trasformazione e la crescita mentale e fisica.
Così la separazione e la perdita, aprendo ad una nuova storicizzazione che consente una sempre più articolata individuazione, non sono solo eventi disperanti, ma formativi ed evolutivi, ristrutturanti l’identità stessa: la sperimentazione del limite, del dolore amplificano la dimensione affettiva e cognitiva, umana ed individuale di colui che la vive. Consentono di dare alle cose una nuova forma ed una diversa progressione.
Quella forma, laboriosamente conquistata, che assume la “separata” di Munch.
Ella, si libra nel suo incedere leggero, quasi danzante, verso altri spazi, altre aree, altri lidi. Attraversa uno spazio libero con una cadenza ritmica ed avanzante verso l’esperienza emozionale della vita. Il suo movimento diventa un pulsare dinamico di emozioni.
Intorno a lei e davanti a lei uno spazio che non è un’area di vuoto ma di espandibilità. Non è vuoto e desolazione: i motivi che caratterizzano lo sfondo in cui lei è inscritta sono la linea della spiaggia ed il mare con il suo incessante moto. Onda dopo onda, mai la stessa onda. La linea della spiaggia segna una demarcazione tra il passato ed il futuro e lei è sul confine, lì dove può avvenire l’elaborazione.
E’ lanciata verso un tempo ed un percorso in divenire, il suo sguardo non cade su se stessa, è rivolto verso il mare ed un altro orizzonte.
La sua leggerezza e luminosità rischiarano la tela creando soffici sfumature che contrastano la massa opaca ed atona, monolitica e compatta, in cui lui è inserito.
La tela ha un respiro universale: è la rappresentazione di qualsiasi “separazione” e del modo in cui può assumere una connotazione non disperante ma sperante che ben si accorda con la poesia di lei che danza sulle altre note di Hesse (1985):
“Lampi febbrili tremano,
fulgori d’astro accendono i capelli,
al potere magico della calda notte,
offro baci e rose.
Notte senza rugiada,
amore senza lagrime.
Attesa trepida del prossimo uragano!”
ALMUSTAFA’ LASCIA L’ISOLA DI ORFALESE
Leggendo le prime pagine de “Il Profeta” di Gibran (1923), mi è capitato di rintracciare, attraverso le parole dello scrittore, la descrizione in termini artistici del meccanismo di separazione. Questa descrizione riprende e descrive la separazione come un movimento. E del movimento ha l’agilità, la temporalità, la spazialità, la grazia e il tormento, la compostezza e il ritmo, una propria direzione, le pause, la consequenzialità e, infine, l’armonia e la lentezza.
Almustafà, il protagonista de “Il profeta”, rappresenta l’individuo impegnato nell’esperienza della separazione.
Passaggi toccanti descrivono il suo dolore nel doversi distaccare da una terra che tanto gli ha riconosciuto e a cui lui ha tanto dato; passaggi che ricordano il dolore di chi sta per operare un distacco, di chi è impegnato a separarsi da una condizione, interna o esterna, che comporti l’espansione del sé. In questo caso la separazione va oltre la perdita provocata dal distacco; introduce piuttosto nella dimensione del lutto inteso come esperienza di recupero e consolidamento dell’oggetto d’amore perduto.
Proviamo a dare una lettura in chiave psicoanalitica al brano di Gibran analizzando alcuni passaggi,
“Almustafà, l’eletto e l’amato, come un alba verso il suo giorno, aveva atteso dodici anni nella città di Orfalese il ritorno della nave che doveva portarlo all’isola natia. E nel dodicesimo anno, nel mese della mietitura, salì sopra la collina fuori le mura della città e guardò verso il mare, e nella foschia vide la sua nave venire.”
I termini usati dal poeta non sono casuali, sembrano piuttosto rivelare il linguaggio dell’inconscio che si manifesta senza volerlo, attraverso la scelta, inconsapevole, di alcune parole piuttosto che altre. L’interpretazione psicoanalitica può visualizzare il linguaggio universale: quello che proviene dall’inconscio e che la poesia, come altre forme artistiche, può cogliere.
La “città di Orfalese” dalla quale Almustafà si deve separare, può rappresentare una condizione reale o mentale che si è costretti a lasciare e tutti i movimenti posti da Almustafà esprimono i diversi passaggi e i tempi interni che accompagnano la separazione.
Il nome “Orfalese” evoca nel suo prefisso il termine “orfa-no” o, per dirla come una paziente “orfanezza”: parola che comprende il lutto o che si genera dal lutto.
La città di Orfalese contiene già nel nome i significati della perdita, è significante del lutto; allo stesso modo di “Dogville”, la cittadina che dà il nome al film di L. Von Trier, significante dei sentimenti di aggressività spinti fino alla ferocia: Città-dei-cani.
Il “mese della mietitura” in cui Almustafà si appresta a compiere la separazione dalla sua terra, è il momento in cui si devono raccogliere le messi, il grano, inteso come momento della maturazione di una condizione mentale pronta a trattenere contenuti psichici dolorosi ma sicuramente remunerativi ed evolutivi.
Il verbo “salì” propone il movimento, in cui è incluso uno sforzo, lo slancio che deve compiere l’individuo per estendersi verso la conoscenza di sé.
Gibran continua con un simbolismo incalzante: “fuori le mura della città e guardò verso il mare” laddove il mare fa pensare all’estensione interminabile del proprio sé e si collega con la frase “fuori le mura della città”, che suona come rafforzativo della capacità dell’individuo di andare oltre le difese psichiche, (“ le mura”), che intralciano la comprensione più profonda di sé “la città”. Ma, precisa, il movimento separativo che sta avvenendo è accompagnato da uno stato di obnubilamento, di offuscamento tipico dello stato depressivo: “e nella foschia vide la sua nave venire”. E’ facile identificare nella “foschia” quella sensazione che accompagna lo stato mentale depresso, in cui le percezioni appaiono come avvolte nella nebbia.
Il brano successivo introduce un dialogo che Almustafà compie con sé stesso.
“Come andarsene in pace e senza dolore? No, non senza ferita nell’anima lascerò questa città (…) e chi può senza rimpianto lasciare il suo dolore e la sua solitudine?
Io non posso allontanarmi senza peso e dolore.
Non è una veste che io oggi respingo, ma una pelle che strappo con le mie stesse mani.
Non è un pensiero che io lascio dietro di me, ma un cuore reso dolce da fame e sete”
In questa sequenza è descritto l’incalzare dell’evento separativo.
Almustafà sembra chiedersi come potersi separare, “come andarsene in pace e senza dolore”, evitando di soffrire. La scelta sintattica di Gibran mette in luce l’esistenza di un importante elemento introspettivo in cui si susseguono, realizzando un movimento evolutivo: il dubbio, l’incertezza, la consapevolezza e, infine la nostalgia: “…un cuore reso dolce da fame e sete”.
Almustafà realizza che i tentativi di negazione del dolore sono improduttivi, e ad un certo stadio di consapevolezza, anche impossibili; attualizza allora che la separazione conterrà, necessariamente, una “ferita nell’anima”.
“Tuttavia più a lungo non posso indugiare. Il mare che pretende ogni cosa mi chiama e io devo imbarcarmi. Poiché se resto, nonostante brucino le ore della notte, io sarò ghiaccio e fossile, costretto in una forma.(…) E sola e senza il nido l’aquila volerà attraverso il sole”
La prima frase sembra un insigth e indica la condizione di coraggio acquisita dalla mente capace di non rompersi a contatto col dolore della perdita, piuttosto di potersi “imbarcare”, in senso esperenziale. Attraverso la separazione, e consequenzialmente ad essa, la mente può fare esperienza di altri e nuovi pensieri, può spingersi nel “mare che pretende ogni cosa”: e’ l’inizio della pensabilità.
L’evitamento della separazione conduce, di contro, la persona ad essere altro da sé, estraneo a sé, “ghiaccio e fossile”. Almustafà dice: “Poiché se resto, nonostante le ore della notte brucino, io sarò ghiaccio e fossile, costretto in una forma”. Ovvero: nonostante la perdita mi impegna a misurarmi con sentimenti depressivi che bruciano la mente, (“le ore della notte bruciano”), se non lo farò diventerò freddo e senza vita, ibernato e sepolto, (“ghiaccio e fossile”), prenderò forme che non riflettono il mio autentico sé, sarò costretto nella nevrosi, (“costretto in una forma”), intesa come “forma” restrittiva del sé.
L’alternativa è il raggiungimento della differenzazione e l’individuazione dall’altro: “e sola e senza nido l’aquila volerà attraverso il sole”. Il “sole”, in opposizione alla “foschia”, rappresenta la condizione esistenziale libera dalla nevrosi, appunto solare.
“E camminando vide di lontano uomini e donne lasciare campi e vigneti e accorrere alle porte della città. E udì le loro voci pronunciare il suo nome e gridare da campo a campo annunziandosi l’un l’altra l’arrivo della nave.
E lui si disse:
Il giorno della separazione sarà forse giorno di convegno? E questa mia vigilia, in verità, sarà detta la mia aurora?”
In questi versi appare una scena in movimento. La presenza di donne e uomini che lasciano i loro campi e accorrono alle porte della città. Le loro voci nell’atto di passarsi la notizia della partenza di Almustafà danno un’immagine dinamica, articolata. Il brusìo e l’azione dei personaggi sembrano descrivere il clima di subbuglio e l’agitazione che accompagna le trasformazioni interne, così come lo stupore e l’eccitazione, l’incredulità e la curiosità. I contadini che pullulano e le loro voci, concitate o sommesse, sono le nostri componenti interne che si radunano, tutte coinvolte e ognuna ha diversa provenienza; chi si “risveglia” da un luogo più lontano (l’inconscio), chi comincia a pulsare ridestando gli stati preconsci. Tutte vengono chiamate a raccolta e creano movimento nella mente accompagnando e contribuendo al processo elaborativo della separazione. Il giorno della separazione diventa in questo modo “il giorno di convegno”. L’evento doloroso e incerto in cui è impegnata la mente, si traduce nel suo stato di autonomia.
“Ma molto restò nel suo cuore di non detto. Poiché lui stesso era incapace di esprimere il suo segreto più profondo”.
Questa frase è successiva a un lungo monologo in cui il protagonista si chiede come spiegare il motivo della sua partenza al popolo di Orfalese.
Nei suoi interrogativi affiora la difficoltà di trasmettere il significato dell’imminente distacco e come questo commiato contenga, come un’offerta, il passaggio dei pensieri che hanno arricchito la sua mente, alla loro: “Sarà il mio cuore l’albero pesante di frutti che donerò loro”; e ancora, emerge la difficoltà che “i tesori scoperti nei silenzi” possano essere compresi e accolti.
Almustafà si definisce “un’esploratore di silenzi”, facendoci riflettere su quanto l’individuo sia in grado di esplorare altri linguaggi, più silenziosi e profondi: il silenzioso inconscio.
Si sa come sia spesso difficile esprimere, anche a noi stessi, pensieri, che, come i “pensieri onirici” contengono contenuti latenti, il nostro “segreto più profondo”, custodito in fondo alla coscienza (Bion 1962). E quando si riesce a mentalizzarlo, le parole sembrano un vestito stretto e sgraziato.
E’ forse per questo che l’inconscio non si manifesta con la lingua ufficiale ma va rintracciato nei gesti, nei lapsus, nelle pieghe di un linguaggio non verbale, nelle pause, nell’espressione, nella comunicazione tra gli inconsci.
Almustafà ha scoperto dei “tesori” ascoltando il “silenzio”, ascoltando l’inconscio, sede di quel “molto” che “resta nel cuore di non detto”. “Molto” non è qui un aggettivo, suona piuttosto come un sostantivo, esprime infatti l’insieme di conoscenze acquisite tramite l’elaborazione dei contenuti mentali resi pensabili.
Come Almustafà, anche noi, nel nostro lavoro, dobbiamo chiederci, con umiltà :
“E cosa offrirò a chi ha lasciato l’aratro a metà solco o ha fermato la ruota del suo torchio?”
LA CURA
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie.
Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te.
Vagavo per i campi del Tennessee (come vi ero arrivato chissà!).
Non hai fiori bianchi per me? Più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare.
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.
Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza.
I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi,
la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi.
Tesserò i tuoi capelli come trame d’un canto.
Conosco le leggi del mondo e te ne farò dono.
Supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale,
ed io, avrò cura di te…io si che avrò cura di te.
(F. Battiato, 1996)
Un essere speciale pur nella normalità, con tutti i difetti e le debolezze, reso speciale dall’amore.
La cura è una canzone d’amore, una canzone che canta l’amore: “Tesserò i tuoi capelli come trame d’un canto”. Un canto che è poesia, come il mare che avvolge gli scogli in un abbraccio di protezione, in cui i desideri oltrepassano i confini dell’inimmaginabile e le emozioni e i sentimenti diventano incontenibili ed imprevedibili; quasi come per fermare il tempo in un istante, l’eternità in uno sguardo.
“Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie”. E andare oltre, come per ergersi oltre il confine della razionalità, per arrivare a toccare corde troppo intime, in una dimensione tanto elevata quanto profonda: “Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare”. Non ti farò invecchiare perché rimarrò accanto a te, attaccato a te, per sempre.
L’attaccamento con tutti i suoi fili invisibili di legame diventa vitale per l’amore e per la cura. A partire dalla naturale propensione alla revérie e all’holding, prende vita l’istinto vitale di accudire, proteggere e crescere insieme, donare se stesso all’altro per entrare dentro l’altro e cominciare a sentire come sente l’altro. La persona amata, in quanto tale, viene sentita come propria, diventa parte di noi stessi, della nostra esistenza e della nostra identità. Amare ed essere amati, curare ed essere curati è un bisogno originario e indispensabile. Infatti, se perdiamo una delle persone di cui abbiamo interiorizzato l’immagine, percepiremo l’impoverimento della nostra vita per la sua assenza: sentiremo che una parte del sé non c’è più ed un senso di vuoto comincerà a riempire e dominare il mondo interiore.
“Dove sei sparita… vorrei dirmi fa lo stesso, ci provo ma non posso e così io muoio un po’…e così resto qui, dappertutto in quel che faccio ci sei tu…e così io muoio un pò” (Stadio 2003).
Per questo non ci resta che tentare di recuperare l’oggetto d’amore perduto.
Dunque, la sofferenza scaturisce dall’assenza, dalla mancanza dell’oggetto e della relazione con l’oggetto stesso.
“Non ho più te, sono sola al mondo, non ho più te, buio più profondo…non ho più te…sono fragile perché non ho più te ” (F. Mannoia 2001).
Nel momento in cui la persona amata non è presente o non c’è più si innescano vissuti di perdita, angoscia di separazione e sentimenti depressivi, che hanno origini antichissime. Difatti, la prima separazione, e quindi la prima ferita, è la nascita. Nel momento del parto viene tagliato il cordone ombelicale e si abbandona definitivamente la vita assoluta del mondo intrauterino. E si entra per la prima volta in contatto con un “altro mondo” caratterizzato da spazi e tempi diversi. Come ci fa notare Winnicott (1989), nelle esperienze precoci di vita, il bambino può sperimentare angosce terribili ed impensabili, come l’angoscia di cadere in pezzi, di essere senza orientamento, di annientarsi e di sparire. Questa condizione originaria lascia le sue tracce impresse nel genoma dell’essere umano, per tutta la vita. Successivamente, di fronte al dolore della perdita, il soggetto può sperimentare una tale sofferenza da rimanerne sommerso e precipitare, come se fosse prigioniero delle “sabbie mobili” e, così, cadere sempre più giù. E non c’è modo di uscirne, almeno questa è la sensazione perché, in questi casi, si può verificare l’impossibilità di una simbolizzazione che determina, a sua volta, l’assenza di una elaborazione luttuosa e di una storicizzazione.
In ogni caso, tutta la vita è un tentativo di superare la separazione originaria, che ogni volta si presenta, si rappresenta, si ripete e tutte le altre separazioni la ricalcano.
Lo scoprire è, in realtà, un ri-scoprire, ogni cosa è già conosciuta prima. Si innescano così, sentimenti di nostalgia e la nostalgia, letteralmente dolore per un non ritorno, genera sempre un movimento circolare, un motivo interiore per la ricerca evolutiva di ogni uomo. Dunque, la vita riporta l’esistenza alla perdita originaria, come la forza della memoria che rappresenta il “pensiero volto all’indietro” (Heidegger 1954). Lo sguardo all’indietro caratterizza il nostro esistere ed il nostro procedere. Tendiamo a ritornare verso dove siamo partiti, per ristabilire la condizione pre-separativa, come si può osservare nella creazione artistica. L’espressione interiore della perdita trova nella sofferenza dell’artista accoglimento e ne genera la forza creativa, dando vita ad un processo in cui si tende a ricreare o ritrovare la situazione precedente, sino alla condizione di felicità assoluta che abbiamo esperito all’origine.
È fondamentale, quindi, attivarsi in una reazione vitale che consenta di cogliere l’essenza della gioia e della sofferenza, e riuscire ad ascoltare il silenzio dell’infinito, come sentire l’odore del mare “un oceano di silenzio scorre lento, senza fine né principio… cosa avrei visto del mondo senza questa luce, che illumina i miei pensieri neri” (F. Battiato, 1988).
La massima espressione di vita in cui il pensiero si stacca da se stesso per tornare verso il sentimento che lo ha generato è l’espressione artistica, ed in questo senso l’arte può possedere una potenzialità terapeutica e rigeneratrice, così come la cura. L’analista interviene come un “chirurgo dell’anima” per ricucire le ferite laceranti della perdita: “ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via” e per restituire al soggetto la sua storia, “percorreremo assieme le vie che portano all’essenza”.
Siamo ciò che siamo riusciti a recuperare e ricordare, e se non sappiamo ricreare la nostra storia, non possiamo sapere chi siamo e non siamo più niente.
Nella “sofferenza che ti rende cieco” è essenziale e indispensabile che qualcuno si prenda cura di te (“io si, che avrò cura di te”).
Quelle cure saranno vitali e fondamentali per il resto dell’esistenza.
L’analista raccoglie il dolore in un setting che significa accoglimento e protezione e che rappresenta una glia di contenimento nei confronti di angosce terrifiche e terrificanti; aiuta il paziente a dare un nome a quell’angoscia ed un significato agli eventi (“ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza”).
CONCLUSIONI
Questa esperienza di lavoro di gruppo ci è sembrata l’esplicitazione di come procede la mente dell’analista: deve riuscire a spostarsi da un pensiero all’altro attraverso anelli associativi assolutamente imprevedibili e dentro un movimento infinito e coraggioso. Ci è sembrato di aver dato voce al movimento del nostro inconscio che, nel contesto gruppale, funzionava come un motore acceso.
La sensazione era intensa: eravamo partiti ed era naturale proseguire, anzi, sembrava impossibile non percorrere i sentieri che si proponevano. L’inconscio è inarrestabile.
...pervasi dall’inquietudine e dal vano desiderio…una barca che anela al mare eppure lo teme…mentre il tempo passa loro accanto… (Della non separazione)
…ed ancora rimanendo lì ad osservare la battigia, si ritroveranno tutte le cose che il mare ha trasportato dal suo profondo… (Il dolore)
…la linea della spiaggia segna una demarcazione tra il passato e il futuro e lei è sul confine…lanciata verso un tempo ed un percorso in divenire… (La separazione)
…no, non senza ferita nell’anima lascerò questa città…tuttavia più a lungo non posso indugiare. Il mare che pretende ogni cosa mi chiama e io devo imbarcarmi. Poiché se resto, nonostante brucino le ore della notte, io sarò ghiaccio e fossile… (Almustafà lascia l’isola di Orfalese)
…più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare. Ti porterò il silenzio e la pazienza. Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza… (La cura)
Il vertice da noi proposto non è certamente quello della critica letteraria, piuttosto un’oscillazione continua di ascolto, comprensione, risignificazione, attraverso i vissuti personali di nascita, morte, separazione che inevitabilmente ci hanno coinvolto. E rileggendo i nostri scritti scopriamo, senza averli previsti, alcuni elementi che compaiono quasi in modo prepotente; il mare, ad esempio, potrebbe essere lo sfondo caratterizzante il nuovo romanzo gruppale. Un mare che ci ha visti restare, partire, tornare, ma anche cullati, agitati, la cui presenza ha accompagnato le emozioni più profonde, ha ordito una trama comune sulla quale sono nati pensieri e sono tornati ricordi più antichi, nuove immagini mentali, espresse attraverso la parola che trova nell’arte la sua forza espressiva, il suo potere evocativo, la sua capacità generatrice di significati sempre rinnovati e sorprendenti.
Allenando le nostre menti ad essere libere di andare e di poter tornare, di avvicinarsi tra loro, di scoprire quanto in comune, pur nella diversità, ci possa essere nella strada percorsa abbiamo così potuto realizzare quello che ci piace esprimere ancora una volta attraverso i versi di una canzone: …Un libero cercare che non sia la meta del viaggio, ma che sia il viaggio intero…
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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