“Sul padre” di Sarantis Thanopulos
Una civiltà senza “Padre”
Francesco, il Papa, si spera, dei poveri, rende esplicito il paradosso della Chiesa che ama i diseredati, perfino con abnegazione, in modo assistenziale, cioè come malati incurabili e senza una prospettiva di riscatto sulla terra. Nello stesso identico modo la Chiesa ama le donne: come soggetti da proteggere e assistere, figure dell’emarginazione che tali devono rimanere, o come vergini da santificare. La ginecofobia delle religioni dominanti rende palese il vero disagio della civiltà: il corpo femminile fa scandalo, al punto che nelle società “avanzate” le donne devono nascondere o negare questo corpo (anche pervertendolo in oggetto eccitato e eccitante) se vogliono farsi strada. L’interpretazione del disagio non può prescindere da ciò che è la forza propulsiva e, al tempo stesso, la perenne contraddizione della civiltà: l’incontro/antagonismo tra la sessualità femminile, che destruttura l’esperienza soggettiva aprendola all’inconsueto, e la sessualità maschile che la struttura e la definisce chiudendola in forme stabili e consuete di vita. Quando questo confronto tra le due forme costitutive della sessualità (nel singolo soggetto, nella coppia erotica, nella società) produce una domanda di apertura che la società non è in grado di accogliere, la soluzione è normativa: la sessualità maschile con il suo potere strutturante si fa canone e la regola comportamentale si sostituisce all’espressione libera del desiderio. Più rigida è la norma più grave è il disagio della civiltà. Il “Padre” è il mito fondante della civiltà normativa e se da una parte svolge una funzione stabilizzatrice nei confronti del disordine di cui la componente femminile della sessualità è foriera dall’altra rappresenta la censura più repressiva della soddisfazione del desiderio. La sua presenza sulla scena è direttamente proporzionale alla subalternità della posizione della donna rispetto a quella dell’uomo. La subalternità della donna (a cui consegue l’impossibilità di un’espressione compiuta della componente femminile del desiderio) è il nodo irrisolto della nostra civiltà, che di questa subalternità ha fatto un suo pilastro, e anche la fonte principale delle catastrofi che periodicamente si abbattono su di essa. Il “Padre” saggio e carismatico (“Buon pastore”, “Uomo della provvidenza”) o autoritario e minaccioso (incarnazione della “Legge”) è un’estensione distorsiva della funzione paterna, un argine difensivo (e a lungo andare illusorio) contro il cambiamento quando esso incombe in modo tumultuoso. Il padre vero è il garante dell’esteriorità dell’oggetto desiderato, della costituzione esogamica, non incestuosa, della coppia erotica: il compagno paritario che offre alla donna una sponda liberatoria verso la socializzazione del loro godimento e crea con lei non l’orizzonte della civiltà ma il suo più autentico significato.
Il padre secondo Scalfari
Con un editoriale, che ripropone un articolo risalente a quindici anni fa, Eugenio Scalfari ha sottolineato l’altro ieri l’importanza del padre come figura di riferimento centrale per il buon funzionamento della società. La sua tesi è che lo stallo politico e sociale sarebbe in stretta connessione con l’eclissi del padre, con un vuoto di autorità che la modernità ha favorito creando l’illusione di un affrancamento “dai legami di sangue e della tribalità”. Senza il padre ha strada libera la cultura del branco e della delega cieca delle decisioni a un capo. Al capo del branco si è storicamente contrapposta la figura di un padre del popolo autorevole, equo, caritatevole e psicologicamente rassicurante. Queste funzioni dovrebbero essere oggi recuperate (almeno in parte) sostiene Scalfari, che dà in questo modo un suo contributo all’iconografia di una figura paterna decisamente mitica. Un tradizionale errore interpretativo è quello di confondere la reale funzione del padre all’interno della famiglia con dinamiche di potere legate all’organizzazione gerarchica, piramidale della società. Ragionando in questo modo non si è generalmente consapevoli dell’appoggio dato alla consacrazione ideologica delle gerarchie sociali come prodotto di un ordine naturale, innato che avrebbe le sue radici nei legami famigliari. L’invocazione del padre da parte di Scalfari come “autorità fondativa dell’interesse generale” comporta il rischio di una trasformazione della funzione paterna in un concetto mistificante che può essere psicologicamente usato a sostegno della supremazia del sesso maschile o di una classe sociale che si arroga il diritto di decidere il destino dell’umanità. Le svolte storiche epocali, di cui la rivoluzione francese rappresenta il paradigma moderno più importante, sono il risultato dello sforzo fraterno di uguali (che non esclude la lotta tra di loro e il fratricidio) e non di questa o di quell’altra figura benevola e lungimirante la cui imposizione alla coscienza collettiva è frutto di un’illusione ottica. Si deve resistere alla tentazione di usare la figura paterna come potenza a sé stante, isolata dal campo di forze all’interno del quale nasce e opera. Dentro la famiglia la funzione essenziale del padre è quella di moderare il legame tra la madre e i figli, che diversamente resterebbe confinato nel registro claustrale dell’appartenenza reciproca. Sostenendo con la sua presenza la centralità del legame della coppia coniugale nella circolazione del desiderio all’interno delle relazioni famigliari allontana l’eros dall’incesto (la promiscuità che annulla la differenza dei soggetti desideranti) e lo socializza perché lo fonda sull’attrazione tra due estranei che rinunciano al legame di sangue. Senza la presenza del padre la capacità della donna di lasciarsi andare all’incontro con l’altro girerebbe a vuoto ripiegando sulla soddisfazione autoerotica. Tuttavia il padre degrada in difensore di regole pietrificate quando non consente che la sessualità della madre destabilizzi la sua tendenza a conformare l’incontro erotico alle convenzioni sociali di scambio (a questa tendenza lo predispone la propria sessualità organizzata nel segno della prevedibilità). La figura del padre non ha senso al di fuori del suo legame sessuale con la madre, e se lo trasformiamo in una figura autofondata e desessuata, che sostituisce la coppia, permettiamo che il nostro pensiero resti prigioniero nel recinto di una civiltà millenaria che si difende dalla relazione di desiderio (che tende a destabilizzarla) pervertendola in relazione di potere e di sfruttamento dell’altro e cadendo in questo modo “dalla padella alla braccia”. La sovradeterminazione dei ruoli famigliari da parte dei rapporti di forza sociali ha creato il mito del padre come colonna portante della nostra civiltà. Questo mito opprime ugualmente il desiderio femminile e quello maschile annullando la differenza dei sessi e la loro complementarità. Rendere la sua incarnazione accessibile anche alle donne, come Scalfari in tutta buona fede propone, significherebbe perdere ogni speranza di emancipazione dal suo lascito.