Perseveranza
Iva era scura di capelli e di occhi. Sembrava aver unito le migliori qualità del suo essere ancora metà bambina e metà adolescente. Aveva una grande forza d’animo e ci sembrò una vera bellezza. Forse tutti gli zingari sono così. Anche i suoi parenti esprimevano, nella costernazione per la malattia di Iva, molta dignità e determinazione. Nella Clinica Neurologica non avevamo mai visto un gruppo così unito.
Ci volle tutta la loro forza e la nostra insistenza. Il nemico non era una delle solite malattie; era una forma ascendente e progressiva di infiammazione del midollo spinale e delle radici nervose. L’effetto era una paralisi delle gambe, poi delle braccia, infine della muscolatura respiratoria. Lei non poteva più respirare, dovevamo farlo noi per lei, a mano. Avevamo per pomparle aria solo un palloncino di gomma, detto Ambu, sottratto all’anestesista Bepi Destro, detto Ambudestro; di solito serviva per gli elettroshock in narcosi. Iva non parlava più, ma era vigile. I suoi occhi andavano dal medico che ritmava il palloncino, al crocefisso sul muro. Ci distribuimmo i turni. Due ore a testa, con un aiutante sempre pronto a sostituire chi fosse stanco o avesse i crampi o altro guaio.
Lo sguardo scuro della tribù di Rom, in silenziosa attesa, ci seguiva implorante, di solito benevolo, fiducioso, a volte minaccioso. Erano colpiti dal fatto che tutti i dottori a turno seguivano la loro bambina e pompavano il palloncino, anche il Professore. Ci sedevamo accanto alla barella nell’ambulatorio e badavamo bene di non mettere in tensione il tubo dell’aria, per evitare di spezzarlo. A me sembrò al primo turno di dover attraversare la manica a nuoto. Occorreva dosare con cura lo sforzo delle mani, per fornire la giusta dose di gas senza stancare la propria muscolatura.
Quelle ore furono intense. Fu come un complicato, ma anche trepido, emozionante travaglio di parto. Dopo tre giorni eravamo un gruppo di puerpere stremate. Però Iva era rinata. Respirava da sola, parlava e sorrideva, poteva muovere mani e gambe, ancora debole. Gli zingari, che quasi non si erano mossi dal corridoio di fronte al modesto ambulatorio, ci guardavano senza parole, pieni di riconoscenza. Quello sguardo! Quello grato del gruppo e l’altro vispo della zingarella resuscitata fu uno dei più ricchi compensi che io abbia ricevuto per il mio lavoro di medico.
Alberto Schon