(S)profondo Sud
Al lato della statale che da Licata porta a Catania puoi incontrare i venditori di frutta. Espongono prodotti locali, pomodori ciliegino di Pachino, meloni di Paceco, uva delle terre di Canicattì. Una volta erano carrettini di legno trainiati da “sceccareddi”, oggi sono auto scassate adombrate con ombrelloni assicurati ai cofani con spaghi o scock per imballaggio.
Mi fermo attirata da gonfie buste di plastica che contengono succulenti pomodorini, rossi, tondi tondi.
Poche parole col venditore, un accento che mi fa sentire a casa, quasi una melodia.
Gli chiedo, soprattutto per averne un dialogo:
“Lei è’ di Trapani?”
“Sono gelese, ma sono stato molto tempo fuori, però il dialetto di Gela si mantiene perché è molto stretto (strittu)”.
Poco più avanti un grosso camion con meloni di Paceco. Sono comunissimi meloni gialli, anche dalle mie parti ci sono, è il nome Paceco che mi attira. Paceco come Bonagia, Partanna, Bagheria sono nomi che sentivo da bambina quando andavo svariati mesi a villeggiare a Trapani, la terra di mia madre e dove sono nata.
Torno in macchina che ho fatto la spesa ma in realtà con l’illusione di portarmi a casa un pezzo della mia terra.
Mi torna in mente il breve dialogo con il venditore di pomodori.
Che c’è dietro quella frase (“il dialetto di Gela si mantiene perché è strittu”), che cosa contengono queste parole? Che cos’è “strittu”? mi fa pensare, letto nel contesto della frase, a qualcosa che comunque non si perde, non si cambia, rimane nonostante si viene in contatto con altri stimoli, altri linguaggi, altre culture, “strittu” come il sugo di pomodoro che per essere veramente buono “s’ava strinciri” (si deve ridurre).
“Strittu” come sinonimo della terra siciliana, non arretrata ma “stritta”, resistente, che sopravvive a tutto. Forse proprio ciò che facilmente si può scambiare per arretratezza, qui giù in Sicilia, è invece una condizione che ne determina la consistenza, la sostanza e come tale è immodificabile, è uno stile, l’aura.
Se ricordo bene, Bollas parla di “stile” che, differentemente dalla “moda” e’ condizione connaturata in un sistema, sia un luogo o una persona e rappresenta la sua forza e la sua imperiturità e, di solito, è una condizione invisibile, non appariscente ma pregnante.
Mentre continuo a guidare penso che, per questo, questa terra non potrà cambiare. Ma ecco che alla mia destra all’interno di un vasto terreno incolto vedo quattro o cinque trivelle che vanno su è giù beccando il terreno, sembrano uccelloni in cerca di cibo.
Stanno estraendo il petrolio. C’è petrolio ovunque qui. In queste terre coltivate a frumento e viti c’è anche il petrolio. C’è anche in mezzo al mare, lo prova la presenza lievemente inquietante della piattaforma petrolifera che di notte, illuminata per com’è, sembra una grande nave da crociera che stà all’orizzonte ma non arriva mai, è lì come a ricordare che si stà lavorando, sempre, come le trivelle che vanno su è giù, anche quando dormi o sei lievemente distratto da altro o svagato dalla calura estiva e dalla luce gialla, calda e avvolgente fino a non farti più pensare.
E se la Sicilia si fosse evoluta sotto i nostri occhi e non ce ne siamo accorti o non ce ne vogliamo accorgere? Mi tornano in mente le parole del principe di Lampedusa (“Tutto cambia affinché niente cambi”), che così come il dialetto di Gela che “rimane perché è strittu” sembra contenere dei messaggi all’interno di un linguaggio da decriptare, messaggi che trasmettono la potenza e la forza di questa terra che, dietro il suo rimanere arretrata, primitiva, nasconde con discrezione il suo enorme potenziale, come a proteggerlo.
Dire che la Sicilia non può cambiare è sostanzialmente differente che dire che non si può evolvere. Forse questo intendeva il Principe? Cambiamento non è necessariamente evoluzione, ecco che torna la saggezza siciliana! Non deve e non può cambiare, in senso strutturale poiché è dotata di un suo “stile”, ma intanto si evolve, accanto ai venditori di frutta, le trivelle, accanto alle barchette dei pescatori, le piattaforme petrolifere.
na cosa,
un cuntu
n’antro
putissi
eventualmente
succediri
ca”.
qualcosa
un fatto
un altro
potesse
eventualmente
succedere
qua”.
Questo mi sembra modernismo.
Ecco forse ci dovremmo stancare di dare alla Sicilia una lettura “antiqua” e cogliere tratti che sono arcaici perché lì da sempre, ma non per questo sono arretrati, piuttosto contengono una contemporaneità che bisogna sapere “scartare” come si fa con i cioccolatini.
E ancora, mi domando se sia segnale di degrado o di evoluzione, o entrambe le cose, gli ombrelloni che, radi, costeggiano l’assolata statale suddetta e “accolgono” donne di colore in attesa. In tanto desertume ci si chiede, cosa fanno quelle donne? Cosa aspettano?Sarebbe più contestualizzante pensarle mezzadre in attesa del padrone che viene a riportarle alla masseria dopo una giornata di lavoro nei campi. Ma invece sono prostitute in attesa di qualche camionista che vuole concedersi una pausa, un break, nel lungo percorso in cui si snoda la strada, senza un bar, un autogrill, un posto di ristoro, chessò, un tabacchino, un posto telefonico. Niente di niente. Solo sole e calura, luce intensa e chilometri, chilometri e ancora chilometri. Più fastidiose, a mio avviso, sono invece le enormi costruzioni, fabbricati che accolgono alberghi di extra-lusso attrezzati di piscina e centro benessere. Queste città nel deserto sembrano stridere sia con il cambiamento che con l’evoluzione. Non si contestualizzano con alcun significato del luogo anzi introducono bisogni che appaiono lontani, molto, da quelli propri di questa terra, della sua gente, tanto da sembrare più degradanti delle “donne con l’ombrellone”.
Donatella Lisciotto