Messina, 28 settembre 2013
Seminario con Pierluigi Moressa, aula Cannizzaro, Università di Messina.
Pierluigi Moressa – Pianger di nulla. Gli affetti di Giovanni Pascoli.
Nel presentare a nome mio e del Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala il collega Pierluigi Moressa, psichiatra e psicoanalista, giornalista pubblicista, da tempo esperto appassionato e competente dei rapporti tra psicologia del profondo e creatività artistica, desidero condividere alcune riflessioni e suggestioni tratte dalla lettura del libro di cui oggi ci parlerà l’autore, dedicato agli affetti di Giovanni Pascoli, di cui Moressa è cultore e studioso da ben venticinque anni.
Il titolo, “Pianger di nulla”, è contenuto in una poesia, Le Ciaramelle, con cui si apre il volume, scritta a Messina e poi pubblicata in “I canti di Castelvecchio” (1903). Nel discorso tenuto a Messina nel 1901 il poeta stesso spiega l’antecedente emotivo che ha ispirato i versi: il suono delle zampogne che trascina verso la nostalgia di suoni di casa, di suoni di culla, di suoni di mamma.
Pianger di nulla fa bene al cuore, “ è un gran dolore che poi non duole”.
Come può il poeta invocare con tale struggimento le “antiche lagrime buone”?
Per comprenderlo dobbiamo conoscere la vita del poeta, sin dall’inizio, prima dell’inizio, una vita costellata da disgrazie, lutti, traumi. Giovannino nasce poco dopo la morte di uno zio e gli viene dato il suo nome. Sappiamo come sia pesante una tale eredità. Egli nasce con la morte addosso. Malgrado ciò il suo cuore non si chiude, non erge una barriera contro i sentimenti, al contrario i sentimenti sono intensamente espressi e rievocati nella nostalgia di un’improbabile felicità infantile che viene sempre immaginata prima, in un prima atemporale. La corrispondenza affettiva, già a partire dalla relazione con una madre “non sufficientemente” viva, trova risposte incerte, fuggevoli, e si interrompe, spesso è fatalmente troncata. E’ come se il poeta non avesse fatto l’esperienza di “pianger di nulla” ( un vissuto non vissuto?), perché ha avuto, e troppo presto, tutte le ragioni di pianto che ogni essere umano può immaginare: morti precoci e ripetute dietro di sé, attorno a sé, davanti a sé, l’assassinio del padre giusto rimasto impunito, con tutte il conseguente circuito di perdite gravi, la miseria, la malattia dell’anima e del corpo. La prima lo porta più volte vicino al suicidio, ed è l’eco del pianto della madre a cui si aggiunge il dolore per la morte violenta del padre, la seconda si annuncia sin dalla nascita. E’ una deformità minima in apparenza, al mignolo del piede, ma si carica di valenze simboliche ed è vissuta con amara vergogna e umiliazione, è il segno del rifiuto che lo accompagnerà sempre.
Non avendo mai avuto “un luogo per esistere” , implume caduto dal nido, il poeta fu eterno pellegrino, cambiando città laddove trovava una sede di insegnamento, ma la sua vera dimora attorno e dentro di sé fu il cimitero: la compagnia dei suoi morti, da consolare, da vendicare, da riscattare, fu più effettiva e intensa di quella dei vivi.
Così il pianger di nulla diviene un pianger nel nulla.
La ricerca di un’immersione affettiva appagante, fusionale, sfocia nell’immersione nel nulla, una volta infranta l’illusione di ricostruire il nido. Anche esso appare, piuttosto che un’alternativa vitale, una replica soffocante, regressiva e mortifera di quel dolore che spera di consolare.
Non stupisce dunque che il poeta invochi con dolcezza e speranza qual pianger di nulla che è proprio del bambino ancora inconsapevole, quel pianto iniziale che segnala il proprio esserci, che sollecita la consolazione dell’amore materno, nella fiducia di riceverlo.
Non a caso il titolo del libro: proprio esso introduce all’esplorazione degli affetti di Giovanni Pascoli, affetti dolorosi, commisti a una vena di dolcezza malinconica, alla nostalgia, alla contemplazione partecipe della natura, che è personaggio e non solo sfondo della sua poesia.
Il merito dell’autore è stato, per me, l’essere riuscito a mostrare l’intreccio tra la biografia di Pascoli e la sua poetica, tra “vita” e “opere” , la competenza e la sensibilità dello psicoanalista gli consentono di mostrare della vita di Pascoli quella compenetrazione tra i fatti e i vissuti, tra mondo interno e mondo esterno che rende gli affetti comprensibili e condivisibili oltre che espressi esteticamente nella forma trasfigurata dell’universale artistico. La costruzione dello spazio poetico si configura come un tentativo costante di rielaborazione, trasformazione, continua evocazione alla ricerca di un possibile conforto.
L’autore accompagna il lettore e lo guida alla scoperta degli affetti del poeta e dei propri: l’animo dell’uomo attraverso i versi si rivela a se stesso nella relazione con l’altro per il tramite della poesia. La narrazione di Moressa riesce a comunicare le ragioni interiori, le radici profonde della disperazione, della rabbia, dell’impotenza di fronte al Male, di quella passiva attesa dolente così caratteristiche della cifra pascoliana. Questi i sentimenti e molti altri, che una lettura attenta fa emergere in una complessità di sfumature che ho compreso meglio attraverso le vicende così dettagliatamente descritte e quasi interpretate attraverso i versi.
Vi è infatti nel libro una continua oscillazione tra vicende biografiche e componimenti poetici, come se la vita interpretasse la poesia e la poesia la vita.
La passione dell’autore mi ha contagiato aiutandomi a sentire e a capire meglio la poesia di Pascoli, mi ha aiutato ad apprezzarne la profondità e il respiro universale, cosmico.
Il nulla mi si è manifestato come del tutto simile a quello strato profondo del nostro inconscio in cui il modo di essere simmetrico è l’unica dimensione, in cui tutto si confonde e sprofonda in una infinità assoluta.
Difficile da concepire, da immaginare, tale dimensione si direbbe irrapresentabile, eppure è rappresentata nella poesia del Pascoli e rappresenta a sua volta il culmine dell’arte che riesce, sola, a trasfigurare affetti estremi e indicibili, in un tentativo autoterapeutico necessario, un lavoro psichico e intellettuale che si risolve in una terapia rivolta al lettore. Un forma di autoterapia prolungata per tutta la vita, una coazione a ripetere speculare a quella del trauma, che diviene una terapia per chi legge e gusta la poesia.
Così come ha detto lo stesso Pascoli : “i poeti non muoiono quando lasciano tanta vita d’immagini”.
Per questo ringrazio Moressa.
Diletta La Torre