DESIDERIO E RESPONSABILITÀ NELLA COPPIA AMOROSA

 

Sarantis Thanopulos

Messina 14.06. 2014

 

1. Il desiderio

Il desiderio descritto in modo semplice ma chiaro da Freud ne L’interpretazione dei sogni, è la ricerca di una ripetizione dell’immagine mnestica di una esperienza di appagamento. Il desiderio quindi è descritto come movimento psichico perché il bambino non cerca l’esperienza dell’appagamento in sé ma la sua immagine registrata psichicamente. L’investimento di questa immagine e la ricerca della sua ripetizione è anche la prima rappresentazione psichica dell’appagamento. L’appagamento consisterebbe nel sollievo ricavato dalla cessazione di uno stimolo collegato a un bisogno fisico, dalla scarica di un eccesso di tensione che produce piacere. Il piacere sensuale, erotico nascerebbe in un momento successivo appoggiandosi all’esperienza di appagamento del bisogno fisico come Freud afferma nei Tre saggi sulla sessualità infantile: il piacere erotico nato dallo sfregamento della mucosa orale con il capezzolo prende forma progressivamente nell’esperienza dell’allattamento appoggiandosi al desiderio di cessazione dello stimolo della fame.

Freud dà una descrizione esemplare dell’apparato psichico visto il termini di stabilità e fondato sul principio di costanza (la tendenza a ripristinare uno stato basale di un minimo necessario di investimento psichico e di tensione). I limite importante di questo modello è l’impossibilità di dare conto della destabilizzazione e del coinvolgimento. Freud descrive un apparato psichico auto-centrato. Pesano su questa sua visuale dell’essere umano la sua concezione del piacere come pura e semplice diminuzione della tensione e l’esclusione del corpo nella sua definizione del desiderio. Ne Il problema economico del masochismo Freud associa il piacere non più a un fattore quantitativo ma necessariamente a un fattore qualitativo, forse, dice, il ritmo: “la sequenza temporale dei cambiamenti, degli aumenti e delle diminuzioni della quantità dello stimolo” (p.6). Freud purtroppo non assumerà pienamente questa profonda intuizione che gli avrebbe permesso di comprendere:

a)       che il piacere non è la scarica di una tensione crescente (nel momento giusto, prima cioè che diventi dispiacere) ma prolungamento della tensione secondo un alternarsi di picchi e di avvallamenti, in cui la persistenza e la durata giocano un ruolo fondamentale prima del compimento dell’appagamento, che ha una struttura complessa nell’orgasmo e non è affatto un sollievo;

b)       che il bambino non è solo orientato verso ricerca di una diminuzione della tensione che vari stimoli (esterni o interni) provocano (e a cui le cure materne provvedono) ma anche, e in modo molto più significativo, verso situazioni sensuali piacevoli che rappresentano la vera soddisfazione del desiderio;

c)       che nell’inseguimento del sollievo che libera l’apparato psichico da tensioni destabilizzanti l’ottenimento di piacere è un effetto collaterale mentre nel movimento verso gli stimoli sensuali l’attesa del piacere è l’elemento fondante;

d)       che il movimento psichico provocato da una eccitazione corporea che va verso l’immagine mnestica di un appagamento è indissociabile, all’origine della vita dal movimento/gesto corporeo che va verso la fonte dell’appagamento.

Il desiderio non è solo tensione/movimento psichico ma anche movimento/gesto (spontaneo e espressivo) nell’ambito di una relazione (silenziosa, quando l’altro è un fenomeno soggettivo, o intenzionale, quando l’altro è presente come soggettività altra). L’importanza del gesto nella configurazione del desiderio è sottovalutata. Il gesto non è un solo linguaggio pre-verbale, ma, soprattutto, spinta verso il fuori da sé, spinta che crea il pendere del soggetto desiderante verso il mondo. Perché la sensualità non esiste senza il fuori di sé che è in primo luogo un corpo altro. Il desiderio ci rende eccentrici a noi stessi, sposta verso la vita l’apparato psichico basato sul principio di costanza e lo destabilizza. Anche quando il bambino è tutto in posizione di autoreferenzialità e non concepisce l’esistenza dell’altro è già destabilizzato senza saperlo. Il desiderio di sé non esiste senza la presenza di un’altro che pur misconosciuto è fin dall’inizio della vita sempre là e produce effetti importanti che seppur significati solo a posteriori lasciano un’impronta determinante. Questa impronta iscrive il desiderio di sé nel suo destino di desiderio dell’altro. Il desiderio è espressione di un soggetto (entità psicocorporea) decentrato, spostato dal suo centro di gravità che si apre, desiderando, al mondo.

Il desiderio non è, tuttavia, solo movimento (psicocorporeo) ma anche coinvolgimento. L’eccitazione deve andare in profondità, impegnare e impregnare tutta la soggettività, perché un desiderio vero e proprio possa prendere forma. Movimento e coinvolgimento congiungendosi producono un forte effetto di sconvolgimento destabilizzante che ha un effetto trasformativo. Lo sconvolgimento e la trasformazione che avvengono nel soggetto desiderante conferiscono all’eccitazione un’intensità che non ha a che fare con l’eccesso di tensione ma con l’espansione della profondità del desiderio verso la complessità.

La forza trasformativa del desiderio si compie nella soddisfazione, nel godimento. Nel godimento assumono la loro forma più evoluta il coinvolgimento e lo sconvolgimento perché a contatto con un altro coinvolgimento. Il punto originario del coinvolgimento reciproco è l’incontro sensuale del corpo del bambino con quello della madre, dove l’incontro assume il suo grado massimo di intensità e profondità. È importante che il godimento lasci in una certa misura il desiderio insaturo facilitando il suo affinamento verso forme sempre più aperte e verso sfumature più complesse.

Il desiderio è fondato al tempo stesso sulla continuità e sul cambiamento. 

2. La lacerazione del velo e la sua sclerotizzazione

   La profondità della soddisfazione erotica della donna è legata all’organizzazione psicocorporea della sessualità femminile che non ha la compattezza, né la relativa rigidità, di quella maschile che ruota attorno alla funzione strutturante del pene. La vagina ha una funzione destrutturante, che scioglie il corpo della donna, mentre il clitoride quando non ha una funzione difensiva (che è associata a una sua identificazione inconscia con quella del pene) svolge un’importante funzione di regolazione che distribuisce l’eccitazione verso la scarica in superficie o in profondità verso la vagina. Detto schematicamente: con il clitoride la donna è padrona del suo corpo e decide come gestirlo, con la vagina si lascia andare compiutamente (più compiutamente dell’uomo) al coinvolgimento e alla destabilizzazione di sé che garantiscono il godimento erotico profondo.

   La profondità dell’orgasmo della donna ha una seconda determinante: il legame omoerotico tra donna e donna, che prende forma nell’intesa erotica pelle a pelle tra madre e figlia dove, rispetto al rapporto tra madre e figlio, c’è una maggiore diluizione di confini, che sfumando intensificano l’intimità:

   C’è una trama di desiderio che avvolge e unisce i corpi che fa diventare la pelle interiorità erotica: la tela sensuale di cui è fatta la donna, il velo che non è superficie ma condizione di profondità. Nel congiungersi di due esseri femminili, dove il perdersi e il ritrovarsi non si appoggiano sugli opposti ma sullo sfumare dei confini, che soglie le riserve e rende la contrattazione più imprevedibile, il conflitto converge non tanto in una regolazione dei desideri (come accade tra madre e figlio) quanto piuttosto in una destrutturazione, scomposizione dell’ordine. Il padre, oggetto di desiderio esterno, è l’opposto che fa riapparire i confini, che attrae verso di sé una parte importante della tensione tra madre e figlia impedendo che la destrutturazione diventi lacerazione, emorragia inarrestabile. (Thanopulos 2014)

   L’uomo è il garante della profondità della sessualità femminile a condizione di restarne esterno, di non invaderla. Il velo vero della femminilità non rappresenta l’inviolabilità del corpo femminile, l’imene della madre virginale, sacrale. Il velo come simbolo di castità è il confine/argine dove si incontrano il desiderio ambivalente dell’uomo verso la donna (possederla e, al tempo, mantenerla intoccabile) e la reazione della donna alla propria vulnerabilità femminile che la porta a immaginarsi inaccessibile. Il velo come condizione del coinvolgimento femminile rappresenta l’interiorità inviolabile del piacere femminile che l’intensità che apre dall’interno il corpo alla vita, il “segreto” della donna a cui l’uomo non può avere un accesso diretto.

   L’esistenza del velo è la condizione necessaria della sessualità. L’esteriorità dell’uomo rispetto al coinvolgimento femminile nella sua più intima intrinsichezza che si costituisce come esperienza di “perdersi”, offre a questo coinvolgimento una sponda (la più compatta sessualità maschile) che gli consente di evolvere nell’esperienza di “ritrovarsi”. Il velo che separa l’interiorità femminile dallo sguardo maschile consente alla donna di trovare nel corpo dell’uomo la sponda per riemergere dalla profondità della disorganizzazione della sua esperienza psicocorporea nell’orgasmo ma consente anche all’uomo di usare il corpo della donna per scendere in profondità:

   L’identificazione sessuale tra la donna e l’uomo è strettamente intrecciata con la loro compenetrazione erotica. É la capacità di perdersi della donna, che rassicura l’uomo, invogliandolo a seguirla, fino a un certo punto. Se l’uomo riesce a “scendere” nella strada del coinvolgimento, ma mantenendo un certo grafo di definizione e disciplina nella sua organizzazione sessuale, la donna può identificarsi parzialmente cin la maggiore presenza in sé di lui, senza sentirsi minacciata da essa, per trovare un appoggio e raggiungere senza preoccupazioni un orgasmo pieno come esperienza di perdersi compiutamente e ritrovarsi. Per comprendere meglio l’intesa erotica tra l’uomo e la donna è necessario tenere presente che se, da una parte, l’ampiezza dell’escursione tra l’esperienza del perdersi e quella del ritrovarsi è la stessa per entrambi, dall’altra parte quest’escursione ha luogo a due diversi livelli di profondità, di modo che le complessive esperienze di soddisfazione si sovrappongono solo parzialmente, anche se significativamente. L’uomo non raggiunge la profondità del perdersi che raggiunge la donna, perché parte da un livello di organizzazione sessuale più in alto e il ritrovarsi in sé della donna si ferma al suo iniziale livello di organizzazione che è più in basso. (Thanopulos 2009).

Per motivi che hanno a che fare principalmente con l’importanza della visibilità del pene nella prima infanzia (nonché con il suo diretto contatto con gli stimoli eccitatori esterni) -il che contribuisce anche a un iper-investimento del clitoride che espone inevitabilmente la bambina a un sentimento improprio di inferiorità-   la vagina è associata al vuoto è rappresentata, sulla via di una sua sovradeterminazione fallica, come il negativo del pene. Questo favorisce una certa mistica del rapporto tra il vuoto è il pieno che non va da nessuna parte. La vagina è meno “vuota” dello stomaco o della bocca. Non è buco da colmare ma apertura del corpo femminile all’incontro con l’altro. È in realtà un “pieno” fatto di tessuto vivo (morbido, “carnoso”, fluido, intenso, pulsante, ritmico, capace di sciogliersi). Perché allora associamo alla donna il vuoto? Perché è vulnerabile alla mancanza dell’incontro. Il tessuto vaginale pieno è una potenzialità, un luogo di attesa che assume il suo significato solo in presenza di un coinvolgimento che lo impregna di desiderio. La presenza dell’altro è la condizione necessaria per il compimento del coinvolgimento e se l’altro manca si dissolve l’attesa. Il dissolversi dell’attesa priva la vagina del suo significato. È la designificazione della vagina che la donna per prima rappresenta come un vuoto che in realtà è la cancellazione, l’opposto dell’attesa. Mentre quando l’incontro funziona il pene è lo strumento che attiva la pienezza dell’essere che si ottiene con lo scioglimento, l’assenza dell’incontro che svuota il corpo pieno è colmata con un corpo compatto, autoreferenziale e chiuso, organizzato attorno al fallo: un piene immaginario, avulso dal suo reale significato di strumento di piacere, che è il garante di un’ organizzazione psicocorporea puramente erettile che insegue l’eccitazione in superficie e rifugge il coinvolgimento.

   Il corpo femminile, centrato sulla vagina e garantito dal velo, è l’essenza dell’essere nella sua concezione come disordine trasformativo. Se lo spazio di attesa, – che è insieme tela e tessuto pieno, vivo- resta deluso, o perché non valorizzato o perché violato (il che alla fine è la stessa cosa), il disordine è percepito come catastrofico, come dissoluzione: un perdersi senza più ritrovarsi. Se l’esporsi alla violazione della sua intrinseca intimità è la causa più evidente della vulnerabilità della donna (e della parte femminile di sé in entrambi i sessi), che può determinare la sua chiusura all’altro, l’organizzazione fallica della sua psicocorporeità non è la reazione alla violenza dell’altro in sé ma al disordine senza trasformazione che lacera, fa a pezzi l’attesa. Ben più terribile della violenza del desiderio dell’altro, che può essere respinto internamente anche quando lo si subisce esternamente, materialmente, è il pericolo che viene dal proprio desiderio: il disordine che nasce dentro di sé senza via di sbocco. La fibrosi ripara la lacerazione del velo.

3. Desiderio e senso di responsabilità nella relazione amorosa

Nella sua forma sorgiva il desiderio è autoreferenziale: non riconosce limiti né referenti esterni. L’emergere dell’altro come condizione della sua soddisfazione non produce automaticamente una contrattazione e una relazione di scambio ma una reazione di rigetto. Il desiderio di sé diventato desiderio nei confronti dell’altro persiste nella sua anomia e rifiuta la soggettività, la libertà del desiderio dell’oggetto desiderato.

Questa asocialità iniziale del desiderio, il suo non relazionarsi con un desiderio altro, pone la questione della sua trasformazione in sentimento d’amore. La radice dell’amore sta nella continuità dell’appagamento e nella costanza del primo oggetto del desiderio ma il sentimento che corrisponde al primo investimento stabile della vita non meriterebbe di essere definito come amore vero e proprio perché manca di un oggetto. È neppure potrebbe essere definito come passione perché manca di quella impetuosità e tumultuosità che solo l’esposizione all’altro e rischio della perdita possono creare. Si può parlare di amore solo quando il sentimento che corrisponde alla continuità di esperienze sensuali positive e alla fiducia nel proprio desiderare si confronta con una destabilizzazione vivibile delle proprie sicurezze a confronto con la scoperta dell’esteriorità della fonte dell’appagamento.

Tuttavia questa prima scoperta dell’alterità non fa entrare immediatamente in scena l’amore ma l’odio. L’altro è scoperto attraverso la frustrazione: il venir meno dell’autoreferenzialità del proprio desiderio e della stabilità, automaticità del proprio appagamento. La frustrazione rende il desiderio impetuoso e implacabile lo trasforma in passione di possesso che è indissociabile dall’odio, un sentimento di rifiuto irriducibile nei confronti di ogni manifestazione di autonomia dell’oggetto desiderato. La passione che contiene l’odio come sua componente essenziale non riconosce la libertà e quindi la soggettività del suo oggetto. È l’odio il primo sentimento nei confronti dell’altro che lo riconosce come soggetto: dotato di un proprio desiderio e di autodeterminazione. È a partire dall’odio che la passione diventa amore: il desiderio stabilmente e irriducibilmente orientato dall’odio all’inseguimento dell’oggetto desiderato che gli sfugge. E ciò che Winnicott definì amore spietato.

Gradualmente l’odio informa il soggetto che odia per lo stesso motivo per cui ama: è la sua odiata soggettività che rende l’oggetto vivo e desiderabile, in grado di offrire una soddisfazione reale. L’amore fa prevalere le sue ragioni perché spinge nella direzione dell’appagamento mentre l’odio -che non è per nulla una reazione difensiva ma afferma l’irriducibilità delle proprie ragioni contro le ragioni dell’altro- rende problematica la soddisfazione. Qui l’amore diventa responsabile perché il desiderio che lo anima deve fare spazio alla cura nei confronti del desiderio dell’oggetto desiderato, riconosciuto ormai come soggetto (fatto della stessa materia del soggetto desiderante). Il senso di responsabilità è questo: se ti amo prendo cura di te – delle tue ragioni, delle tue inclinazioni, della tua libertà nel decidere e vivere l’amore. Questo rende anche l’odio responsabile: ti odio perché mi rifiuti ma non posso che rispettare la tua libertà, perché sé violassi (con la violenza o l’inganno) i tuo desiderio tu non saresti più veramente coinvolto e vivo ma inerte nelle mie mani e insieme al tuo desiderio morirebbero anche il mio reale coinvolgimento e la possibilità stessa della mia soddisfazione. L’odio nella sua forma autentica orienta l’amore, gli segnala in modo incontrovertibile i rischi del fallimento.

La questione dell’amore diventa necessariamente più complessa se teniamo conto dell’altra, spesso misconosciuta o fraintesa, componente della reazione del desiderio rispetto all’esteriorità del suo oggetto: il masochismo originario. Mentre da una parte il desiderio insegue spietatamente il suo oggetto e lo odia se gli sfugge dall’altra si lascia destrutturare dal desiderio dell’altro (dalla sua passione). Possedere attraverso l’essere posseduti, lasciarsi andare/perdersi nella mani dell’altro: il massimo dell’esposizione. Questo è il punto in cui prende forma il secondo importante fattore, insieme alla responsabilità, nella configurazione dell’amore: la reciprocità unilaterale. L’amore non ammette calcoli che cambiano la sua natura: ci si espone all’altro senza aspettare una sua reciprocità, una sua analoga esposizione, gli sia fa credito di una reciprocità non ancora realizzata e neppure scontata. Non si può mare senza questa reciprocità unilaterale anche una vera relazione d’amore non si può stabilire senza una reciprocità vera e propria, un’intesa tra entrambe le parti.

Nell’amore masochistico (collegato al piacere di essere posseduti) l’odio è sempre diretto alla soggettività dell’oggetto desiderato ma per il fatto che essa minaccia la soggettività del soggetto desiderante esposto al deside e senza garanzie a priori di essere rispettato. Anche qui l’odio è al servizio dell’amore perché lo protegge segnalandogli i rischi e insegnandogli la prudenza. L’odio scalda il posto all’amore in attesa di tempi migliori.

Tutto questo richiede che la frustrazione del desiderio non tende a prevalere o a rendere comunque instabile la sua soddisfazione. In condizioni favorevoli l’odio fa parte dell’amore e non ha finalità distruttive: respinge la soggettività dell’oggetto desiderato (cioè la possibilità del rifiuto o del pericolo che viene da essa) ma ha bisogno di un soggetto che sopravvive (non chiuso al possesso e al coinvolgimento né vendicativo o difensivamente aggressivo) perché possa acquisire senso e mantenere la sua funzione.

Se l’oggetto non sopravvive l’odio e viene dissociato dalla passione che cerca di ritrovare il suo oggetto perduto. Il soggetto crede che sia stato il suo odio (espressione della sua passione di possesso) a distruggere l’altro desiderato e lo mette da parte creando un amore depurato del l’aggressività che non è un vero amore perché rinuncia al possesso. L’amore protegge difensivamente ciò che ama dalla sua passione e l’odio è percepito come sua contraddizione mortale. L’isolamento dell’odio è aggravato dal fatto che rinunciando al possesso spietato dell’oggetto quest’ultimo tende inevitabilmente a sconfinare nel campo masochistico del desiderio e a diventare pericoloso invasivo. L’oggetto è odiato per la sua invasività e l’odio può diventare distruttivo: la sua metà può diventare quella di distruggere l’invasore. Più l’amore è costretto a difendersi dall’odio per non distruggere ciò che ama più l’oggetto diventa neutro sul piano del desiderio e l’amore perde il suo fondamento. Si ama senza desiderio e la compassione – la cura che si idee riduca con il sentire, patire del oggetto amato – perde la sua passione.

Se le cose vanno per il verso giusto, se l’oggetto sopravvive, l’amore prende forma come amore responsabile e esposto unilateralmente. Può sfociare in una relazione di desiderio vera e propria, quindi amorosa se l’altro gli viene incontro. Tuttavia l’amore conserva dentro di sé l’amore passionale spietato che lo allontana dalla pura interpretazione masochistica del desiderio che lo sorregge.

Mentre il desiderio è appagato in modo diretto compiuto che crea un senso di quiete, senza chiedere altro in più che a restare insaturo e aperto a nuove scoperte ( per non subire l’assuefazione), l’amore è sempre accompagnato da una certa inquietudine che lo mette sempre in movimento. La soddisfazione del desiderio richiede che il soggetto desiderato sia tutto nel godimento ma al tempo stesso che sia libero e quindi non sia tutto dell’amante. L’amore, invece, nella sua dimensione più passionale che gli è necessaria aspira al possesso totale ed entra così in una bella contraddizione: se rinuncia al possesso perde la sua forza, se insiste nel possesso può danneggiare la soddisfazione del desiderio e quindi sterilizzarsi. L’amore deve in parte inseguire il suo oggetto l’unico modo per mantenere allo stato potenziale la contraddizione. Gli amanti tendono ad annullare e, al tempo stesso, di rinnovare la loro differenza, fanno e disfanno costantemente i nodi che li stringono l’uno all’altro.

L’amore va di pari passo con il lutto che è indispensabile per elaborare la perdita, la trasformazione del consueto in inconsueto (che nutre la nostra capacità di amare). L’alternanza tra amore passionale (spietato e masochistico) e l’amore responsabile che prende cura di ciò che ama crea uno dei presupposti fondamentali del lutto spietato e masochistico si alternano con la responsabilità. L’amore passionale che rivendica la continuità della sua accoglienza ripara il soggetto che ama (difende la natura più profonda delle sue ragioni) e l’amore responsabile ripara l’oggetto amato, con il riconoscimento della sua libertà a costo di una propria limitazione. Questo limitazione che apre la strada all’i consueto e alla differenza che moltiplica verso l’infinito le potenzialità di amarsi, questa “castrazione” del proprio desiderio senza la quale non si può avere un’oggetto da amare è un dono.

Ildono ha le sua radici nell’amore masochistico, l’esposizione al desiderio dell’altro. È un fatto necessario perché non si può amare senza rischiare. È un dono di sé che è non è ancora un dono per l’altro perché il dono diventa veramente tale se l’altro l’accoglie. Dona all’oggetto una possibilità che può accettare o meno. Il dono di sé come libertà dell’oggetto amato è dentro la relazione d’amore e la istituisce come luogo della più intima e devota delle cure. Questo forma più evoluta del dono ed è la premessa dello scambio di doni nella relazione amorosa: donare l’uno all’altro il proprio coinvolgimento che tende possibile la più compiuta forma di godimento.

La libertà del soggetto amato (il dono che gli si fa insieme al proprio coinvolgimento) significa in prima luogo la possibilità di amare un altro. La presenza di una terzo -all’inizio il padre- nella misura in cui mette in discussione la assolutezza e l’autarchia del legame d’amore lo istituisce anche come luogo di libertà: nessun legame d’amore preso in sé è necessario e insostituibile per divina volontà ma è il prodotto di una libera scelta.

Essere sconfitti dal primo terzo- il padre – è necessario per smentire il legame come cosa obbligatoria per rinunciare all’onnipotenza ed accettare che l’amato deve essere conquistato. Ma la presenza del terzo non basta se questo terzo non è a sua volta libero rispetto all’oggetto amato e conteso – in origine la madre. La libertà del rivale legittima la nostra libertà altrimenti l’oggetto conteso diventa dominante su entrambi con danno di tutti. L’allargamento del campo d’amore collegato alla sessualità si scontra con la sua necessità di concentrarsi su un oggetto privilegiato per non disperdere le sue potenzialità per dare loro forma definita e espressione. Il desiderio si apre contemporaneamente su molte possibilità ma amare al tempo stesso più persone provoca una diminuzione di intimità e intensità che toglie all’amore la sua complessità che non è compatibile con il suo dispiegamento su vari fronti. L’amore è legame privilegiato e libertà non è concepibile diversamente.

Differenza e costanza devono accordarsi tra di loro e questo accade attraverso la sublimazione: l’espansione del piacere dei sensi oltre la area della sensualità e della pura sensorialità che espande immensamente l’area dell’esperienze del piacere. La sublimazione, prodotto della domanda di differenza che il desiderio stesso promuove incessantemente, si muove sostanzialmente in due direzioni: la produzione di “cultura” -nel senso più ampio di cultura come modo di vivere, la   civiltà, incluso il lavoro- e la realizzazione di relazioni affettive -l’espansione del desiderio oltre il campo del godimento sensuale verso la simpatia, la tenerezza, l’amicizia, il prendere cura delle emozioni e dei pensieri degli altri. La costanza nella relazione amorosa (che dura il tempo dell’accordo tra legame e libertà) usufruisce del pluralismo dei legami affettivi e culturali che soddisfano il suo bisogno di differenza e libertà rispetto all’esclusività del legame erotico su cui si fonda. Ma questi legami alternativi non sono uno sfogo per un bisogno di libertà centrifugo rispetto alla relazione erotica ma convergono (insieme alla molteplicità degli stimoli erotici esterni che la coppia amorosa riesce a catturare nel suo interno) per l’allargare la complessità della relazione. Essere libero di amare in altri modi, impegnandosi in altre relazioni consente amanti di ampliare e arricchire la loro intesa creando una libertà tra di loro.

Tutto questo è complicato dal fatto che mettere insieme diverse esigenze non è facile a causa dei conflitti di interesse che la complessità promuove. Inoltre essendo le relazioni sociali fondate sul desiderio erotico contengono anche nelle loro forme più sublimate la contraddizione interna alla relazione erotica tra senso di responsabilità e passione che non è mai risolvibile in modo perfetto. Inevitabilmente il senso di responsabilità che è in diretto contatto con le ragioni del desiderio deve trasformarsi in regole e la cura della relazione deve evolvere nella sua regolazione. Più ci si allontana dalla cura della relazione più la reciprocità del coinvolgimento richiede un intervento esterno e può accadere (purtroppo con una certa facilità) che la regola si sostituisca alla responsabilità piuttosto che essere sua emanazione. Quando la regola perde del tutto il suo rapporto con la responsabilità e con il desiderio diventa norma. La norma è arbitrio, mette principi astratti al posto del desiderio: il Desiderio non siede più dalle tra le leggi possenti (vedi Antigone e il canto sull’amore invitto). Lo scontro tra amore, che vive sul disordine e sul coinvolgimento. e principio morale/norma, che crea un ordine difensivo, è permanente.

4. Le condizioni dell’amore

L’amore deve essere rispettato in quattro sue condizioni fondamentali: l’indeterminazione, l’immaginazione, il lutto, il sogno.

L’amore non si può determinare: le strade che prende, le sue divagazioni, le sue dilazioni e le sue accelerazioni. L’amore determina non è determinato, ama gli imprevisti, le incertezze e le improvvisazioni. Nel suo determinare l’andamento delle cose che incontra nella sua strada non si affida al calcolo. Il suo movimento impegna gli amanti ma non li spinge in una direzione predefinita: li apre l’uno all’altro e al mondo, non li chiude in un recinto non li isola dalla vita.   L’immaginazione è il suo miglior servitore: chi ama non vede e non tocca con mano ma immagina, intravvede. Immaginare non è fantasticare ma intuire dove la realtà può svelarsi ai nostri desideri schiudendosi a loro, dove le nostre emozioni e i nostri pensieri possono diventare sensibilità, comprensione sentita del mondo. L’immaginazione amorosa rifugge la prigionia dell’oggetto amato perché preferisce anelarla, crea nodi metaforici che mentre annodano trasportano anche i sentimenti altrove, irradiandoli verso la vita.

   Don Chisciotte trasporta il suo desiderio in un mondo privo di immaginazione, vaga in un deserto in cui la concretezza delle cose schiaccia la possibilità di sentirle e di viverle, perché si sostituisce al senso di mancanza, al lutto, che le rende reali e desiderabili: le cose che non si perdono non esistono veramente. In un modo che non è malato di pragmatismo Dulcinea è un oggetto che trasforma la perdita in capacità di sognare, come accade nell’incontro con la donna o l’uomo del nostro destino, che mai vedremo più, in treno, in un bar o in una passeggiata vicino al mare.

La dimensione onirica del nostro rapporto con la realtà (il sogno della veglia e del sonno), che ispira l’immaginazione, è la vera dimora dell’amore perché è il luogo in cui ciò che è perduto riappare insieme identico e in trasformazione in modo da eludere ogni nostra velleità di costituirlo secondo le nostre intenzioni. Amiamo sempre ciò che abbiamo perduto come lo ritroviamo in termini di potenzialità tra ciò che è stato e ciò che potrebbe diventare, tra la sua familiarità e la sua estraneità (che ci apre all’alterità),

     Possiamo ora affrontare una questione finale: la concezione dell’amore per l’altro come “desiderio di essere desiderato”, secondo Hegel (e Lacan) che ingabbia il senso del godimento (e del coinvolgimento) nel contratto sociale. L’amore è la prima manifestazione della socializzazione del desiderio, della sua iscrizione nella relazione con l’altro (gli altri). Tuttavia non è il contratto sociale che determina l’amore ma al contrario è l’amore che, evolvendo, dà forma al primo contratto sociale. Nel suo nucleo originario e irriducibile alle ragioni dell’altro, l’amore è “spietato”: insegue il coinvolgimento e il godimento (la soddisfazione profonda del desiderio) e ignora la soggettività dell’oggetto desiderato. Pretende che l’oggetto sia coinvolto e godibile indipendentemente dal suo desiderio che è inconcepibile e resta misconosciuto. Come è stato detto in precedenza, quando questa pretesa è delusa l’amore si mantiene vivo sotto forma di odio. A un secondo livello (radicato nel primo) riconosciamo che è l’odiata soggettività dell’altro, la libertà del suo desiderio (la possibilità e il bisogno di amare altro da noi), a renderlo vivo è desiderabile, e desideriamo che sia desiderante e non semplicemente che ci desideri. L’amore è desiderare di essere desiderati da un altro che essendo desiderante desidera anche altro da noi: questa è la condizione perché un vero godimento (che esige un partner vivo perché libero) possa diventare possibile. Questo amore che definisce il contratto sociale (invece di essere definito da esso) rientrerebbe in forma emendata nel discorso di Hegel, se Proust non ci avesse orientati verso un’altra possibilità: l’amore è desiderio della tensione tra l’essere e il non essere desiderati (tra la certezza e l’incertezza di esserlo).

5. Lutto, tradimento e responsabilità

Tradire è l’atto costitutivo della nostra libertà ed è strettamente intrecciato con la perdita. La rinuncia alla madre vissuta come protesi onnipotente di sé non è solo il momento critico della necessaria separazione da lei: è anche un reciproco tradimento fortemente voluto che consente alla madre di ritrovare il suo posto di donna nella vita e al figlio di affermare la propria differenza da lei, la propria distinta esistenza. Questo tradimento che fonda la presenza dell’altro come oggetto separato da sé e l’amore stesso come riparazione della perdita, è strettamente legato al riconoscimento del fatto che nessuna relazione erotica può essere satura e autosufficiente. L’altro non esiste senza un altro ulteriore che lo definisce e lo trascende e ciò crea una concatenazione potenziale di oggetti amati infiniti il cui inseguimento farebbe del tradimento una regola assoluta. L’amore ha due nemici che si sostengono a vicenda: il legame ideale, la pretesa di tornare nel prima della relazione amorosa (nell’illusione di un’appropriazione narcisistica del mondo), e la promiscuità, la sostituibilità disinvolta degli oggetti amati. L’amore trova il suo senso nell’esclusività del suo oggetto che non è una condizione a priori ma il prodotto di una scelta di relazione che se da una parte trae dal confronto con gli altri potenziali oggetti l’ispirazione di un suo costante rinnovamento, dall’altra realizza attraverso la propria autolimitazione, che evita la dispersione, il massimo del coinvolgimento.

Amare è libertà, e questo implica l’infedeltà, ma anche ricerca della profondità che richiede un’intesa che esclude il tradimento. Legarsi e liberarsi è il destino degli amanti che convivono con la perdita e aggiornano di continuo il loro accordo. Il lutto è loro congeniale perché se l’amore non è la ricerca frenetica del nuovo, è vero anche che la riproposizione del medesimo lo svuota. Amare l’altro ancora e ancora, nel modo di sempre, richiede anche la capacità di accettare di perderlo per ritrovarlo in forme inconsuete, scoperte per la prima volta. Il lutto che fa parte del discorso amoroso consente di mantenere una costante tensione tra la conservazione nostalgica dentro di sé dell’altro come identico a se stesso e l’esigenza di vederlo trasformarsi nella sua esistenza esterna secondo declinazioni nuove che non saturano il desiderio nei suoi confronti. L’amore vive finché questa tensione tra l’identico e il nuovo (che rinnova la percezione del passato e rende riconoscibile il futuro) si mantiene viva.

Il tradimento può essere parte del lutto amoroso (l’ultimo appello a rinnovare un legame che ha perso la sua tensione tra intesa e libertà, tra consuetudine e rinnovamento) o del lutto che segnala la fine dell’amore. Il perdono -come dono rinnovato di sé- ha un senso solo nel primo caso. Perdoniamo chi ci ha tradito se continuiamo ad amarlo e ci è possibile riconquistarlo: perché lo ritroviamo vivo dentro di noi e ancora disponibile ad amarci nell’inalienabile esteriorità del suo desiderio. A pensarci bene non si tratterebbe di perdono ma di capacità di ritrovamento del traditore e del tradito in quelle comuni ragioni d’amore che hanno determinato il tradimento.

     Significativamente gli antichi greci non avevano una parola per dire perdono. Usavano la parola συγγνώμη che significa: scusa (scusare), tolleranza, comprensione. È il sostantivo del verbo συγγνωμονέω/συγγιγνώσκω che significa: pensare con, essere d’accordo con. In Etica Nicomakea Aristotele collega συγγνώμη, e έλεος (compassione) all’atto preterintenzionale quello che si compie per ignoranza delle circostanze e non intenzionalmente. In un suo commento David Costman professore di Studi Classici all’Università di New York dice: “Il significato di συγνώμη deve essere che un’azione dannosa o impropria che ha avuto luogo preterintenzionalmente è comprensibile e condivisibile, non è considerata come atto ingiusto di cui l’agente è responsabile”

     La questione che vorrei porre è questa: il tradimento amoroso comporta perdono, a cui Aristotele fa corrispondere il suo contrario, biasimo (ψόγος), o συγνώμη? In altre parole bisognerebbe vedere se il tradimento è un atto preterintenzionale e in tal caso può essere compreso e scusato (in quanto condivisibile: qualcosa che ognuno di noi potrebbe commettere) o un atto intenzionalmente dannoso e quindi perdonabile, secondo una prospettiva cristiana, o semplicemente biasimevole, secondo una prospettiva greca.

Direi che il tradimento che non è dovuto all’amore ma è un inganno interessato della buona fede del tradito è biasimevole. Può essere elaborato in modo personale dal tradito o dal traditore se pentito come lutto perché la falsità subita o la falsità agita comportano una perdita. Il lutto usa il biasimo (che il traditore dove assumere per accedere al lutto), che segnala che un limite è stato violato e sancisce la sua inviolabilità, e una volta elaborato non ne ha più bisogno. Il persistere del biasimo nei confronti dell’azione specifica dell’inganno (e non come censura preventiva della sua eventualità come atto che chiunque sarebbe tentato di compiere) significa che il lutto non è stato elaborato.

Inserire qui il perdono non ha molto senso perché se la perdita è stata elaborata perdonare è superfluo: o l’ingannatore in qualche modo è tornato a essere oggetto desiderato – e in questo caso non c’è nulla da perdonargli e bisogna solo riaccoglierlo- o ha perso questo significato e può essere solo accantonato. Il perdono, dono unilaterale, avulso dalla scambio, sancisce una superiorità morale, mette in debito il perdonato nei confronti di chi perdona. In questo modo mantiene appesa come spada di Damocle la condanna e non consente una riconciliazione vera. Come il biasimo anche il perdono indica che il lutto non è stato elaborato.

   Se, invece, il tradimento è dovuto all’amore per un altro è un atto preterintenzionale perché fa parte “delle conseguenze dell’amore” che è “invitto in battaglia” e a cui nessuno di noi può sottrarsi, se ama veramente, con la sua intenzione e volontà a meno di non tradire l’amore stesso. Sorge dunque la questione: sul piano etico è più importante la fedeltà all’amore o la fedeltà a un patto coniugale che ha perso il suo amore? In altre parole: è etico il senso di responsabilità che è indissociabile dall’amore – per cui non è possibile essere responsabili senza amare- o la norma che ripudia la destabilizzazione e il coinvolgimento e afferma la necessità di un ordine? Sulla base di quanto detto finora la mia risposta è ovvia: la prima cosa, il senso di responsabilità. Dunque il tradimento per amore è comprensibile, scusabile.

     Non sarebbe tuttavia giusto ignorare le complicazioni. Spesso chi tradisce, suo malgrado, è legato al tradito da precedenti sentimenti d’amore che hanno perso la loro forza e la loro intima convinzione ma sono trasformati in tenerezza, voler bene. Questi sentimenti non hanno un così diretto collegamento con il senso di responsabilità come l’amore ma non gli sono estranei. Qui non ha senso parlare di inganno e di menzogna, ma di divisione interna: si vuole bene a una persona e si ama un’altra. Si mente non per ingannare ma per tenere insieme le due cose e si soffre. Si paga un prezzo che gli altri a cui si mente si spera non paghino. Lo si paga per loro.

   È una situazione comprensibile ma rischiosa. Perché si può scivolare nel sacrificio che è il contrario della responsabilità. Il dolore per il dolore della persona tradita a cui si vuole bene può sfociare in un senso di colpa che più si allontana dal desiderio responsabile nei confronti di chi si ama più svilisce i sentimenti quelli dell’amore e quelli dell’affetto. Spesso la colpa si appropria del dovere nei confronti del legame affettivo e lo sdogana come lealtà. Si può perdere il contatto con i propri sentimenti e scivolare nella confusione e a un richiamo all’ordine, l’esito più catastrofico.


Dalla nostra pagina Facebook
Comments Box SVG iconsUsed for the like, share, comment, and reaction icons

Venerdì 13 dicembre ore 17:30 si terrà in modalità mista il quarto e ultimo incontro del ciclo di seminari gratuito "Dialoghi psicoanalitici: clinica e altro" organizzato dalla Sezione Sicilia-Calabria.
Verrà presentato il libro "Incontri di primavera. Un gruppo di studio sulla sensorialità" dagli autori Antonello Correale (psichiatra psicoanalista SPI) e Donatella Lisciotto (psicologa psicoanalista SPI).
Il seminario si terrà in Via Gabriello Carnazza 27, Catania e sarà possibile partecipare anche online tramite piattaforma zoom.

Per iscriversi visita il seguente link:
us06web.zoom.us/meeting/register/tZUod-usrTMpEtz1gF4-PTG5N8qgnDFYM-9e#/registration

Informazioni su segreteria.catania@sippnet.it
... Leggi per interoRiduci testo

2 settimane fa

Il Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala
vi suggerisce il sito Psicoanalisi e sociale

 

Alcuni anni fa abbiamo chiesto allo psicoanalista Adamo Vergine di spiegare ai giovani che cos’è la psicoanalisi. Oggi per ricordarlo nel giorno della sua morte, riportiamo la sua testimonianza e a nome del Centro Psicoanalitico dello Stretto e del Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala di Messina esprimiamo la nostra commossa partecipazione per la sua perdita.

 

⚠️ Avviso importante:
Avviso ai naviganti! (4/1/2021) A causa di un problema tecnico, momentaneamente il Laboratorio psicoanalitico Vicolo Cicala è raggiungibile solo al numero 090343155. Potete lasciare un messaggio in segreteria e sarete prontamente richiamati. In alternativa, è possibile inviare una mail all’indirizzo vicolo.cicala@libero.it specificando nome e numero di telefono per essere ricontattati. Scusateci per il disagio e a presto!

Per essere richiamati qualora si contatti il numero fisso (090 343155), è necessario lasciare nome e numero di telefono alla segreteria telefonica; qualora si contatti invece il cellulare (393.1096199) si può anche scrivere un messaggio tramite sms o tramite Whatsapp

Avviso agli studenti che svolgono il tirocinio presso il Laboratorio Psicoanalitico Vicolo Cicala di Messina ...altro