È di scena la spettacolarizzazione delle emozioni in questo episodio di Black Mirror inquietante e carico di suspence fino alla fine e, persino, fin dopo i titoli di coda; anzi, proprio alla fine della fine, viene svelato il senso della storia. Molto originale la composizione del film, per niente lineare, realizzato per trasmettere quel senso d’irrealtà e non sense, che ben rappresenta una certa condizione esistenziale. Per tutto il tempo si resta sospesi e attenti in un continuo susseguirsi di colpi di scena e in un crescendo di crudeltà, resa ancora più insopportabile dall’indifferenza e dalla complicità. Calzante espressione della deriva di taluni valori della società attuale, l’esasperazione forzata non si discosta poi tanto dalla realtà. La descrizione dei personaggi si gioca nell’equivoco costante dell’ambiguità e della confusione tra il bene e il male. Non si distingue, fino in fondo, chi è la vittima e chi il carnefice, chi il perseguitato e chi il persecutore. Un vero e proprio ribaltamento della realtà che confonde e genera condizionamenti traumatici che interferiscono nella capacità di pensare le cose e intervenire con criticità. Persino la Giustizia viene rappresentata alla stregua di un Parco di divertimenti (Justice Park) e affidata alla massa aizzata dall’eccitazione e resa violenta pur restando passiva. Un popolo intrusivo ma non curioso, pavido ma sempre presente pur nella inermità, sembra nutrirsi e ricercare situazioni violente e paradossali. Un ritratto di una generazione insulsa e addomesticata a vivere in differita. Stare a due passi della “scena del crimine”, metaforicamente intesa, senza tuttavia esserne toccati. Un coinvolgimento di massa che esita piuttosto in una neutralizzazione delle emozioni e realizza l’effetto di essere spettatori di uno spettacolo, di una partecipazione non partecipata. Più si assiste a cose cruenti più si reagisce senza coinvolgimento e con un distacco persino lontano dall’ onirico.
“C’è stato un segnale, tipo delle immagini che lampeggiano…é apparso in tutti nei televisori, nei computer, ovunque ci sia uno schermo…ha fatto qualcosa alle persone….hanno cominciato tutti a fissare gli altri e anche a riprenderli, a filmare, spettatori a cui non interessa quello che accade… 9 su 10 sono stati colpiti, non ha avuto effetto su tutti….io li chiamo i cacciatori…hanno iniziato con piccole cose e poi si sono spinti oltre, tipo rubare, distruggere….loro potevano fare quello che volevano anche con le persone…poi sempre peggio…e ora hanno un pubblico…credo che fosse già insito in loro, dovevano solo cambiare le regole perché nessuno intervenisse”.
Questo dialogo tra le due protagoniste femminili sembra, profeticamente, anticipare la politica dell’odio e dell’indifferenza indotta che serpeggia nella nostra società. “I cacciatori” che “hanno iniziato con piccole cose” e poi “sempre peggio….ora hanno un pubblico”, non può non ricordare metaforicamente un certo indirizzo politico sostenuto da una certa mentalità o attitudine (“già insita”- dice la protagonista) ma che adesso vediamo rafforzato, diffuso e condiviso poiché “dovevano solo cambiare le regole perché (più) nessuno intervenisse”. Ma il film offre una miriade di altri spunti e ha la potenza di suscitare in ogni spettatore riflessioni e criticità che potranno trovare spazio nel dibattito successivo alla visione.
Donatella Lisciotto.