Un ponte per la Sicilia
L’occhio della Gorgone e Crono in catene
Il Panorama che diventa Inconscio
Cristallizzati in un tempo che è stato e che non può continuare a essere, reduci di una storia che è forse troppo potente per togliercela davvero di dosso.
Chi siamo? Chi sono i cittadini dello Stretto?
La storia del Mediterraneo è una storia millenaria: mori, saraceni, greci, norreni, egiziani, fenici.
Lo Stretto di Messina è stata la porta verso la Sicilia, uno dei due granai dell’impero romano, e Messina stessa, cui nome antico è Zancle, è stata la prima colonia siciliana appartenente alla Grecia fondata prima ancora dell’Impero. Le navi, in tutto questo, hanno sempre fatto da sfondo imprescindibile a un paesaggio che viviamo sottopelle, forse, persino a un livello inconscio. A oggi è impossibile affacciarsi da una delle finestre delle case più alte e non scorgere sul mare nemmeno un’imbarcazione. Così possiamo vedere flotte appartenenti a società diverse fendere le acque: Enotria, cui nome rimanda alle radici greche della nostra Italia, la terra del vino, o Giano il dio romano dai due volti, signore delle soglie.
Sempre.
Ogni qualvolta un Messinese volga lo sguardo verso il Mediterraneo, lo scenario è uno: traghetti che vanno da una costa all’altra, turisti che scendono da crociere che sono veri e propri colossi del mare, imbarcazioni più piccole, i mezzi veloci, che solcano lo Stretto in fretta, fino a pescherecci di vario tipo. Immaginare Messina senza attracchi è impossibile, immaginare un altro collegamento che non siano le navi è quasi alieno e a una parte alienante corrisponde sempre una risposta organica per espellerla, per non sentirla come possibile, per ignorarla.
In un’Eco che arriva fino ai giorni nostri, leggiamo articoli che sostengono sia meglio chiamare il ponte “Ponte di Scilla e Cariddi”, dando auge a un’opera che sicuramente fonda la nostra tradizione mitologica e letteraria, ma che è antica e che rimanda sempre alle navi in un continuo dal quale sembra impossibile discostarsi; perché è a bordo di un’imbarcazione che Odisseo aggira Scilla e Cariddi e parliamo di un’opera il cui viaggio è reso possibile grazie alle navi dalle vele nere (per una parte del percorso) e povere zattere (verso la fine).
È come se nell’inconscio collettivo dello Stretto le navi fossero incistate, impossibili da far svanire. Le imbarcazioni fanno parte del paesaggio e sono naturali come la linea dell’orizzonte, le terre che si sfiorano senza incontrarsi e il vento che corteggia in un continuo le coste. Nessuno si aspetta di voltare lo sguardo verso le acque e non vedere le navi, perché se non ci fossero sarebbe strano, spaventoso, alieno e, per dirla in termini psicoanalitici, sarebbe perturbante. Messina non sarebbe Messina.
Vedremmo qualcosa di conosciuto che di improvviso si tinge dei colori dell’inconoscibile, come “Il colore venuto dallo spazio” lovecraftiano. Togliere le navi del paesaggio corrisponde, a un livello inconscio, a eradicare le nostre radici che, come sopra facevo notare, sono millenarie, avviluppate alla nostra essenza più vera.
La Storia è meravigliosa, ci ricorda chi siamo, da dove proveniamo, quali sono le nostre radici più intime, ma più è grande, più il confronto con quello che dovremo divenire ci grava sulle spalle. Se è vero che discostarci dal nostro passato per guardare al futuro significa uccidere, in parte, l’infante che è in noi, è anche vero che in noi l’infante è chi rende la nostra vita attiva, curiosa, creativa.
Istinto di vita e morte. E in fondo queste due istanze possono un po’ rappresentare i due lati della popolazione di messinesi e reggini che da un lato vogliono il ponte e dall’altro non lo vogliono. Queste riflessioni sono dovute a dei commenti che ho sempre udito in merito alla costruzione del ponte che, al di là di un mio schieramento verso l’uno o l’altro verso, ho sempre visto accomunati da una parola chiave: ripetitività.
Negli ultimi giorni ho avuto modo di confrontarmi con svariate persone circa l’argomento in questione e anche loro hanno ripetuto alcune frasi che mi sono rimaste in testa. Anche se ciò che ha dato la vera propulsione allo scrivere questo articolo sono stati alcuni commenti di Instagram. Commenti che non vengono scritti mediante una critica attenta, ma sono più “di pancia”, “di cuore”, “di stigmatizzazione” e, per finire, “di stagnazione”, “di cristallizzazione”, “di discriminazione”.
Il perché di molti di questi aggettivi lo vedremo più in avanti, ma in questo momento desidero porre l’accento sulla ripetitività che rende questi commenti molto simili a dei meccanismi di difesa. Se si parla del ponte, queste frasi vengono ripetute in automatico, come se fossero statue all’interno di un percorso che non si può modificare. L’occhio della Gorgone, forse, che genera staticità, l’infante ucciso, piuttosto che concedergli il passo nella sua vitalità. Una vitalità che potrebbe andare in entrambe le direzioni, sia contro, che pro.
Cito di seguito le frasi che più mi hanno colpito.
“Prima di fare il ponte, bisognerebbe fare le strade”
È la prima frase di rito riscontrabile in qualsiasi post o discussione si parli di quest’opera. Leggendola mi suscita sempre un’emozione di sospensione. L’immagine mentale che si crea è di un ponte creato nel vuoto che inizia e finisce esattamente coi pilastri di una sponda e di un’altra. Approfondendo questa discussione, si denota sfiducia nel Governo e il pensiero comune che una costruzione enorme possa oscurare i bisogni dell’intera città. Parti di questi commenti si soffermano sulle uscite del ponte che passerebbero lontani dal centro e che di conseguenza potrebbero far impoverire la città, mentre, d’altro canto, l’investimento di così tanti fondi all’interno di un’area urbana potrebbe portare anche a una spinta dell’economia. I rischi sono in entrambi i sensi, è sempre una scommessa, la faccia di una medaglia che, se si mostrasse da un lato, porterebbe al mantenimento dello status quo, qualcosa che conosciamo, ma, se cadesse dall’altro, porterebbe a qualcosa di diverso e il non sapere se questo diverso sia in meglio in peggio terrifica, di nuovo l’ombra del perturbante.
“Con i soldi che spendiamo per il ponte potremmo migliorare le scuole”
Questa è un’altra affermazione che, piuttosto che un’immagine mentale, mi fa sorgere una perplessità. Il progetto del ponte è stato sospeso comunque per più di vent’anni e non risulta che la scuola abbia navigato nell’oro grazie a questo stop. Credo che i professori precari possano confermare che la pausa non abbia portato nuovi posti di lavoro o nuovi fondi. I soldi del ponte vengono definiti come spreco di risorse pubbliche, ma visto che questi fondi di base sono stati bloccati, e quindi non sono stati utilizzati, c’è qualcos’altro in cui si possono investire?
Si stanno facendo progetti alternativi?
È come se il non fare il ponte possa portare allo sviluppo di qualcos’altro. Ma questo ponte non si è mai fatto e niente si è mai sviluppato. Come può qualcosa di non fatto gravare su qualcosa che invece è?
Sicuramente fondi per mettere in cantiere il progetto sono stati sprecati, ma personalmente non credo che la loro diluizione verso altre opere avrebbero portato enormi cambiamenti rispetto allo
stato attuale delle cose. E forse, in questo caso, sto cadendo io stessa nel meccanismo circolare della ripetitività.
“Non è necessario investire in un luogo in cui la mafia fa da padrone”
Non mi butterò in una difesa a spada tratta della mia terra e in una disamina dell’argomento mafia, perché, da giovane siciliana, sono cresciuta sentendo parlare di mafia e ne ho preso le distanze per l’enorme peso psicologico che chi nasce qui porta. Alle scuole medie ci fanno vedere film a tema e nell’aria si percepisce un: è questo quello che accade nella vostra Sicilia, non ne sarete mai liberi. È come se ognuno di noi, noi che siamo nati in questa terra, portassimo addosso un marchio indelebile.
Il marchio della Gorgone?
La frase su citata è intercambiabile di tanto in tanto da altre simpatiche frasi quali: “se lo facessero, il ponte crollerebbe”, come se fossimo incapaci di costruire in un luogo in cui vengono registrati con sistematicità scosse di terremoto e nel quale, fino a prova contraria, continuiamo a vivere. Come se non avessimo strutture antisismiche. Come se non avessimo la memoria di uno dei terremoti più terrificanti al quale l’Italia abbia assistito. Basta una data perché ogni Messinese sia perfettamente consapevole di ciò di cui si sta parlando: 1908.
“La Sicilia si allontana dall’Italia a una distanza che varia da 1 mm a 1 cm l’anno”
Lungi da questo articolo fare stime su quale sia la vera distanza percorsa dalla nostra terra, lascio il margine di errore per comprendere tutti quei commenti che non sottendono a una vera e propria logica. È vero che c’è questo spostamento, ma è anche vero che ingegneri e geologi stanno svolgendo studi di fattibilità comprendendo questa problematica.
Forse questo è uno dei commenti che viene utilizzato più spesso e che meglio spiega il senso di questo articolo.
Logicamente basterebbe cercare su Internet per vedere che una risposta a questa domanda si sta già cercando e si propenderebbe verso un’effettiva fattibilità della costruzione. Ma in questa ripetitività non sembra esserci una vera ricerca, sembra più esserci un raggiungimento dell’occhio della Gorgone per rimanere nella staticità, una conferma semplice al perché non fare. Da qui una logica basica e lineare: se la Sicilia si sposta, il ponte non si può fare.
Poco prima ho citato la discriminazione e la spiegazione della scelta di questa parola è stata sempre un commento su Instagram: “La Sicilia si avvicina più all’Africa che all’Italia”, e ne seguiva la domanda sul perché collegare la regione allo Stivale, visto che, in fondo, non saremmo, nemmeno italiani.
“Il Ponte inquinerebbe uno dei luoghi con la flora e la fauna più ricche del Mediterraneo”
Il rischio di un mostro architettonico pronto a sostare tra le due coste è sicuramente quello che più si teme. Che sia a un’unica campata o che nuove fondamenta emergano tra i fondali dello Stretto (facendo concorrenza alle tre colonne che sosterrebbero, secondo la leggenda, la Sicilia) vedremmo in ogni caso la modifica del panorama per come lo conosciamo oggi e, dall’altro lato, una modifica sostanziale dell’ambiente marino che potrebbe portare danni di rilevante importanza in un secolo in cui la problematica ambientale è particolarmente sentita.
Si ha paura dell’inizio di una costruzione che non arriverà mai a una fine e oltre all’incompiutezza esisterebbe lo scempio di un pezzo di storia e di un panorama tra i più belli al mondo. Un panorama
che ogni messinese e reggino vive sin da quando è nato e che è incuneato nella memoria collettiva storica.
Simpatici (in questo caso per davvero) sono stati alcuni photoshop di un inizio dei lavori già fermati e delimitati da una rete arancione che però, di fondo, parrebbero celare una paura: la paura dello scempio, della distruzione e dell’eradicazione delle nostre radici.
“A Messina c’è tutto mezzo.
Menza c’a panna, menza parola, menzu svincolo”
Dice con geniale e goliardica ironia “Il ruggito del Consiglio” una delle pagine che più rappresenta lo spirito della città. Speriamo non ci sia anche mezzo ponte. Meglio stendere una linea in cui sia accettabile solo quello che vi è ai poli: tutto o nulla.
Non guardarla mai in viso.
Serviti dei sensi, fuggi, voltati, guardati indietro, ti ha intrappolato.
Non cedere alla curiosità, no!
Non aprire gli occhi, perché, una volta incontrati i suoi, il tuo tempo finirà di scorrere.
Di candido marmo è diventata la tua pelle d’avorio.
C’è un passato e non c’è il futuro.
La testa della Gorgone non è stata decapitata, hai fallito.
L’egida di Atena è scevra del volto mostruoso.